AFGHANISTAN, LO RACCONTA ALBERTO CAIRO

AfghanistanIl dottor Alberto Cairo a Kabul con uno dei suoi pazienti.

“Una vera pace sembra ancora lontana”. Alberto Cairo, l’italiano che da trentuno anni, lavorando in Afghanistan per la Croce Rossa Internazionale, ha restituito speranza a tantissimi afghani ai quali era stata tolta anche quella, chiude così il nostro dialogo. E capiremo dalle sue riposte che con “pace” lui, che nel 2010 proprio in nome della pace è stato anche candidato al Nobel, non intende solo la fine della guerra ma ben altro.

La vostra attività, cominciata a fine anni Ottanta come programma ortopedico ma con gli anni allargatasi a un’assistenza globale, ha risentito dell’arrivo dei talebani, nell’estate scorsa?

“Il nostro lavoro non è cambiato. Ma non era cambiato neppure durante i precedenti cambi di regime. I pazienti hanno gli stessi bisogni di prima e governanti sanno benissimo che siamo utili. Adesso, poi, ai pazienti soliti si aggiungono i talebani stessi, anche loro hanno bisogno di fisioterapia e protesi. Quello che invece è cambiato è l’umore generale: la gente è spaventata per la gravissima crisi economica e per il futuro dell’Afghanistan. Sento spesso i nostri lavoratori discuterne con preoccupazione”.

I talebani hanno di certo preso contatto con lei e con la Croce Rossa Internazionale. Qual è stata l’impressione?

“I contatti tra talebani e Croce Rossa Internazionale hanno avuto luogo quasi subito. Ci hanno chiesto di continuare a lavorare, garantendo per la nostra sicurezza. Io, poi, li incontro ogni giorno come pazienti che vengono a chiedere la terapia. L’impressione è di persone che vengono da un mondo chiuso e piuttosto arretrato, dialogare con loro non è facile. Molti di loro confondono il simbolo croce rossa con la croce cristiana e non la guardano di buon occhio”.

Un tempo, in Afghanistan, c’era l’emergenza delle mine anti-uomo. Quali sono, adesso, i fronti su cui dovete più intervenire?

“Intanto, il problema delle mine anti-uomo non è risolto. Ogni anno tra 400 e 500 nuove vittime si presentano da noi con amputazioni. Ma la patologia più diffusa, oggi, è la paralisi cerebrale. Dai 14 mila nuovi pazienti che riceviamo ogni anno, 5 mila sono bambini che ne soffrono. Il numero cresce di anno in anno perché le famiglie ora sanno del trattamento che offriamo e ce li portano. Abbiamo segnalato il problema al ministero della Sanità, chiedendo l’apertura di centri specializzati, ma nulla è stato fatto. Temo che ora, con il cambio di regime, sarà ancora peggio. Così tutto ricade sulle nostre spalle e su quelle dei genitori. Per informazione: in totale sono 215 mila le persone registrate nei nostri sette centri di riabilitazione. Di esse, circa 175 mila tornano almeno una volta l’anno per ottenere dei servizi. Facciamo circa 4.500 nuove protesi e 24 mila altri apparecchi ortopedici l’anno”.

Il nuovo regime dei talebani ha appena compiuto i cosiddetti “100 giorni”. C’è stato qualcosa, in questo periodo, che l’ha sorpresa rispetto alle attese e ai timori dell’estate scorsa?

“La situazione economica dell’Afghanistan è peggiorata drammaticamente. Da agosto gli impiegati della pubblica amministrazione non sono pagati, i ministeri sono praticamente chiusi, il nuovo Governo non sembra avere piani. Le etnie non pashtun sono escluse dalla vita pubblica, mancano chiare direttive su scuola e lavoro. Onestamente non trovo nulla che mi abbia colpito in positivo. La sicurezza è in parte migliorata ma non per tutti: essere sciiti o del Panshir è discriminante”.

Secondo previsioni dell’Onu, 23 milioni di afghani rischiano la fame e il 95% della popolazione soffre di malnutrizione. È davvero così drammatica la situazione?

“Non sono in grado di giudicare le cifre pubblicate dall’Onu ma il 95% mi sembra una percentuale molto alta. Posso però dichiarare con certezza che il numero dei poveri è cresciuto a dismisura. Da sempre riceviamo richieste di aiuto finanziario da parte di pazienti, ma ora il numero è decuplicato. Si tratta di persone che mai avevano chiesto aiuto in passato, che riuscivano a sopravvivere dignitosamente. Abbiamo fatto controlli sulle reali condizioni economiche di parecchi di loro e abbiamo trovato situazioni di assoluta indigenza”.

Effetto di una scarsa capacità di governo o delle sanzioni inflitte dall’estero?

“Direi entrambe le cose. I talebani non hanno finora sviluppato un piano di governo. Allo stesso tempo l’Occidente ha di colpo interrotto l’aiuto che dava all’Afghanistan, pur conoscendone perfettamente le conseguenze”.

Ma fino a che punto è accettabile ridurre un popolo intero alla fame per colpire un regime politico sgradito o colpevole?

“È la domanda che ci facciamo in tanti. Una cosa è certa: chi paga, adesso, è la gente”.

La prima versione dei talebani, vent’anni fa, si presentava chiusa al mondo. Quella attuale sembra invece tesa a stabilire un contatto con altri Paesi… È solo la necessità o sono cambiati?

“È difficile dire quanto i talebani di oggi siano diversi da quelli degli anni Novanta. Di certo diverso da allora è l’Afghanistan, con il mondo intero. Con Internet, la televisione e i media la chiusura di un tempo non sarebbe possibile. Della nuova tecnologia i talebani hanno bisogno, la usano. Sanno che restare isolati non è più possibile, la globalizzazione tocca tutti e quindi anche loro. Ma questo non significa che siano cambiati loro la loro visione dell’Occidente”.

In Occidente si pone molta enfasi sulla situazione delle donne. Per loro che cosa è cambiato? Ci sono altre componenti della popolazione che soffrono di limitazioni prima inesistenti?

“Che il nuovo regime abbia chiuso le porte alle donne è una realtà. Le frange più conservatrici dei talebani le vorrebbero invisibili. Nelle campagne la segregazione femminile è sempre esistita ma nelle città, nei passati vent’anni, molte cose per le donne erano cambiate: più istruzione, più lavoro, una “timida” libertà. Ora rischiano di perdere tutto. Ma il governo talebano non è inclusivo. Finora ha escluso dalla vita politica ogni etnia che non sia la loro, la pashtun. Per gli hazara, i tagiki e gli uzbeki il passo indietro è preoccupante. Per i talebani, la parola inclusione vuol dire tollerare che le altre etnie esistano”.

Da quando i talebani hanno preso il potere ci sono attentati e sparatorie con i miliziani del cosiddetto Stato Islamico Khorasan. Quanto si sente la minaccia di questo gruppo terroristico?

“Tutti speravano che, tornati i talebani al potere, non ci sarebbero stati più attentati. Il fatto che l’Isis, che qui chiamano Daesh, riesca a colpire dimostra che i talebani sono divisi e non sono invincibili. Una vera pace sembra ancora lontana”.

Fulvio Scaglione

Pubblicato sull’Eco di Bergamo del 4 dicembre 2021

 

Fulvio Scaglione

Mi chiamo Fulvio Scaglione, sono nato nel 1957, sono giornalista professionista dal 1983. Dal 2000 al 2016 sono stato vice-direttore del settimanale "Famiglia Cristiana", di cui nel 2010 ho anche varato l'edizione on-line. Sono stato corrispondente da Mosca, ho seguito la transizione della Russia e delle ex repubbliche sovietiche, poi l'Afghanistan, l'Iraq e i temi del Medio Oriente. Ho pubblicato i seguenti libri: "Bye Bye Baghdad" (Fratelli Frilli Editori, 2003) e "La Russia è tornata" (Boroli Editore, 2005), "I cristiani e il Medio Oriente" (Edizioni San Paolo, 2008), "Il patto con il diavolo" (Rizzoli 2017).

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