AFGHANISTAN: IL PONTE E LA SCONFITTA

AfghanistanUn'immagine dell'evacuazione di civili afghani da parte della nostra aviazione militare.
Quando esalta il lavoro in Afghanistan dei nostri diplomatici e dei nostri soldati, il ministro degli Esteri Di Maio enuncia una pura e semplice verità. In quella specie di girone infernale che era diventato l’aeroporto di Kabul, siamo riusciti a evacuare cinquemila afghani terrorizzati alla prospettiva di vivere di nuovo sotto il controllo dei talebani. Nessun Paese europeo ha fatto altrettanto, pochi lo hanno fatto con pari coraggio e misura. In queste situazioni estreme i nostri apparati si comportano bene, con una professionalità che molti ci invidiano. Riconosciamolo, noi italiani così inclini all’autoflagellazione. A un livello più alto e collettivo, però, dobbiamo anche riconoscere che dall’Afghanistan abbiamo rimpatriato soprattutto noi stessi, i nostri sogni e quell’idea di Occidente che portiamo con orgoglio ma che sempre più spesso funziona come armatura ma non come abito della festa.

In altre parole, paghiamo il prezzo (e soprattutto lo pagano altri popoli) di una contraddizione insuperabile: fare la guerra parlando di pace, occupare annunciando la libertà, portare un aiuto a bordo dei carri armati. L’Afghanistan è stato lo specchio di questa schizofrenia, anni e anni senza capire se stessimo facendo una guerra o conducendo un’operazione umanitaria. E parlando di profughi: oggi li portiamo in Europa a decine di migliaia, segnalando comprensione. Ieri poche centinaia di loro ci spaventavano al punto che li rimandavamo indietro senza troppo chiederci che cosa sarebbe stato di loro in un Afghanistan ch’era già per quasi metà controllato dai talebani. E «ieri» non è un modo di dire: a marzo 2021 gli afghani erano la seconda nazionalità dopo i siriani per richieste di asilo in Europa (2,670 contro 5,195) e trovavano protezione internazionale sono nel 53% dei casi.

La domanda davvero angosciante è: perché in vent’anni di tempo e con un dispendio di mezzi e denaro enorme siamo riusciti in così piccola parte a farci capire, a far apprezzare i valori di cui vogliamo essere portatori e di cui, anche se in misura limitata rispetto alla popolazione totale, molti afghani, dalle donne promosse a maggiori diritti ai bambini più protetti dalle violenze e dalle malattie, hanno potuto godere?

Diamo pure per scontato che fosse impossibile (sempre ammesso che fosse legittimo) sostituire una cultura con un’altra e far abbandonare agli afghani usi e costumi maturati nel corso dei secoli. Ma la realtà è che in tutti quegli anni e con tutto quell’impegno e quella forza siamo sì e no riusciti a scalfire la superficie. Persino le élite, ovvero gli strati sociali che più erano stati beneficati dalla presenza degli occidentali, si sono dileguate nel momento del bisogno: i politici sono scappati senza vergogna, i militari si sono arresi senza combattere, i burocrati hanno prontamente cambiato casacca. E da anni, nelle zone al confine col Pakistan da sempre critiche per l’Afghanistan, si è insediato pure l’Isis, assetato del sangue degli infedeli e dei musulmani che considera apostati. Il che tra l’altro significa che al fallimento politico e culturale si è affiancato quello tecnico e militare, perché non siamo riusciti a interrompere le vie di finanziamento dei talebani e nemmeno quelle dei jihadisti fedeli all’Isis.

Il «caso Afghanistan», con il ritiro delle truppe e l’evacuazione degli afghani che gli atti di coraggio non rendono meno ignominiosi, impone una riflessione profonda alle nostre cancellerie. Intanto, su che cosa sia davvero ciò che chiamiamo Occidente. E su come intendiamo presentare al mondo quelli che noi consideriamo valori universali e che, al di là di ogni filosofia e soprattutto di ogni retorica, sono il fondamento del benessere e dell’uguaglianza che possediamo in misura così superiore ad altre parti del mondo. Una constatazione che non mitiga il fallimento afghano (o iracheno o libico o siriano) ma, al contrario, lo rende ancor più bruciante e imperdonabile.

Pubblicato sull’Eco di Bergamo del 29 agosto 2021

Fulvio Scaglione

Mi chiamo Fulvio Scaglione, sono nato nel 1957, sono giornalista professionista dal 1983. Dal 2000 al 2016 sono stato vice-direttore del settimanale "Famiglia Cristiana", di cui nel 2010 ho anche varato l'edizione on-line. Sono stato corrispondente da Mosca, ho seguito la transizione della Russia e delle ex repubbliche sovietiche, poi l'Afghanistan, l'Iraq e i temi del Medio Oriente. Ho pubblicato i seguenti libri: "Bye Bye Baghdad" (Fratelli Frilli Editori, 2003) e "La Russia è tornata" (Boroli Editore, 2005), "I cristiani e il Medio Oriente" (Edizioni San Paolo, 2008), "Il patto con il diavolo" (Rizzoli 2017).

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