Navalny è morto in una colonia penale a regime duro proprio nel momento in cui, a voler essere crudelmente sinceri con noi stessi, le speranze di quella Russia diversa, aperta all’interno e all’esterno, evocata da Yulia Navalnaya sembrano più ridotte che mai. Aleksej Navalny fu arrestato per l’ultima volta il 17 gennaio 2021, all’aeroporto Sheremetvevo di Mosca, al ritorno dalla Germania dove aveva curato le conseguenze del tentativo di avvelenamento subito il 20 agosto 2020 nella città siberiana di Tomsk. Dopo il suo arresto, l’intera rete con cui aveva più volte messo sotto accusa, e comunque in imbarazzo, il Cremlino fu rapidamente smantellata: messi al bando il partito Russia del futuro e la Fondazione anti-corruzione, arrestati o costretti alla fuga all’estero tutti i principali collaboratori, chiuse le sedi aperte in diverse città della Russia. Navalny non era un politico, non era portatore di un’ideologia, ma era un grande e abile interprete dell’insoddisfazione di una parte, minoritaria ma influente, della società russa per le politiche via via sempre più nazionaliste del Cremlino. Era un’attivista, un movimentista, e aveva raggiunto i risultati migliori in quella veste: nel 2021, quando uscì il famoso documentario sul Palazzo di Putin (una mega villa sul Mar Nero che secondo la Fondazione anti-corruzione apparteneva appunto al Presidente, dietro uno schermo di intermediari), l’indice di approvazione di Putin perse di colpo dieci punti. Di quella rete, di quelle incursioni che il Cremlino non riusciva a fermare, resta poco. La Fondazione ha cercato e cerca di operare dall’estero ma non può più raggiungere i russi come prima. È in corso, in vista delle elezioni presidenziali di marzo, la campagna Ne Putin, no a Putin, ma quanti da noi se ne sono accorti?