Comunque vada, il Consiglio europeo di ieri (21 marzo) è stato il primo Consiglio di guerra nella storia trentennale dell’Unione europea, come in quella ancora più lunga della costruzione europeista. Per la prima volta si è parlato della guerra come di una prospettiva reale, concreta, vicina, forse imminente. Hanno ovviamente contribuito gli eventi in corso. Le cupe prospettive del massacro di Gaza, ampiamente discusse. L’intervento a distanza del presidente ucraino Zelensky che, pur grato per la nuova tranche di aiuti da 5 miliardi erogata dalla Ue, non ha nascosto la delusione: «Le munizioni sono una questione vitale… purtroppo l’uso dell’artiglieria in prima linea da parte dei nostri soldati è umiliante per l’Europa, nel senso che l’Europa può fornire di più. Ed è fondamentale dimostrarlo ora». Ma soprattutto la coscienza di essere entrati in una nuova fase della storia, una fase in cui la guerra è tornata a essere, al contrario di quanto recita la Costituzione italiana all’articolo 11, un mezzo di risoluzione delle controversie internazionali.
Fino a due anni fa la questione non aveva toccato noi europei in modo diretto. Anche il lungo conflitto nel Donbass, 15mila morti tra il 2014 e il 2022, non era stato vissuto come un conflitto europeo, anche se era combattuto nelle regioni dove si combatte ora. A darci una scossa ha contribuito la strage terroristica di Hamas del 7 ottobre scorso e la reazione di Israele, un enorme sasso nel già ribollente stagno mediorientale che allarga i suoi cerchi, come vediamo nel Mar Rosso con gli attacchi Houthi, a prospettive globali. Adesso la sensazione è che la guerra sia ovunque, anche alle porte di casa, e che occorra prepararsi. Per farlo occorre rinforzare gli eserciti e dotarli di armi efficaci. Ma riarmare non basta, ci dice il Consiglio europeo, bisogna mobilitare la società intera. In qualche modo, introdurla in quest’epoca nuova e pericolosa. E per farlo occorre molto denaro. Da qui la proposta di varare un nuovo piano di bond europei, cioè di andare a raccogliere i soldi sui mercati finanziando a debito il piano di riarmo, integrato dagli investimenti dei Governi nazionali. Idea che piace agli europei del Sud e poco a quelli del Nord, nella riedizione della vecchia distinzione tra cicale e formiche.
Sono decisioni difficili e non possiamo stupirci se provocano pareri diversi o vere spaccature. Molti Paesi devono ancora risollevarsi dagli impegni contratti con il piano di sviluppo post Covid, finanziato appunto con i bond, e guardano con preoccupazione alla prospettiva di nuovi prestiti e debiti. Anche perché, nel frattempo, le urgenze del momento non si dissolvono solo per renderci le cose più facili. Mentre Zelensky chiedeva altre armi per resistere ai russi, Italia, Francia e Polonia (ovvero i Paesi dove più forte è stata la recente protesta degli agricoltori) bocciavano la bozza Ue per regolare l’importazione di prodotti agricoli ucraini, che dall’inizio della guerra possono entrare sui nostri mercati senza pagar dazio. Risultato: aumento dell’export agricolo ucraino del 175% in due anni, grazie al vantaggio sul prezzo. I tre Paesi citati chiedevano restrizioni maggiori, e Zelensky ha avuto buon gioco nel chiedere perché gli europei vogliono mettere un limite al grano ucraino e non a quello russo, che compriamo in abbondanza.
E tra questa Europa indecisa e gli Usa, che al Consiglio di sicurezza Onu chiedono «un cessate il fuoco immediato», facendo capire di avere abbandonato la causa di Netanyahu (ma non quella di Israele), c’è tutta la differenza tra un organismo che fatica a decidere e uno Stato che può decidere in un attimo. Anche questo farà la differenza nel brutto mondo futuro a cui ci stiamo preparando.