Dimostrativo, perché fin troppo annunciato, era l’attacco dell’Iran a Israele del 13 aprile. Dimostrativo è stato quello dell’altra notte di Israele, perché fin troppo misurato anche se rivolto all’importante base iraniana di Isfahan. È finita qui? Difficile dirlo, perché la risposta dipende da una serie di partite che i contendenti stanno giocando e che solo in parte sono collegate ai risvolti militari. La prima partita, quella più evidente, la stanno giocando Israele e Usa, e ancor più Benjamin Netanyahu e Joe Biden. Nell’anno della seconda sfida con Donald Trump, Biden non vuole passare per il presidente che abbandona Israele ma nemmeno per quello che asseconda gli istinti sanguinari di Netanyahu e di un Governo dominato (anche prima del 7 ottobre e dei massacri di Hamas) da un manipolo di estremisti. È un sentiero stretto, che costringe Biden a un tira e molla tra moniti a Netanyahu (no all’attacco su Rafah, no all’escalation con l’Iran) e aiuti a Israele (i veti all’Onu, i caccia per abbattere i droni iraniani) che rischia di alienargli, da qui al voto di novembre, le simpatie degli elettori giovani e delle minoranze. Netanyahu, che non è nato ieri alla politica, lo capisce e quando può non esita a tirare la corda.
La seconda partita è quella che si gioca in Iran, tra la Guida Suprema Alì Khamenei e i vertici militari, soprattutto le Guardie della Rivoluzione. Khamenei non smette di invitare alla calma, alla «prudenza strategica», mentre i militari mostrano un’evidente voglia di menare le mani, forti anche di un arsenale molto cresciuto negli ultimi anni. È una dialettica che si sviluppa dal 2020, quando gli americani uccisero il generale Suleimani, ed è arrivata fino a ieri con l’uccisione a Damasco del generale Mohammed Reza Zahedi da parte degli israeliani. I soldati sono spinti dal risentimento per quella che considerano una debolezza dei vertici politico-religiosi e anche dall’interesse: se la Repubblica islamica vacilla, vacilla anche il loro potere e il loro privilegio.
Questo confronto ha schiacciato altre istituzioni che, in passato, hanno moderato le diverse spinte: il presidente Ebrahim Raisi è quasi sparito, non c’è stato nemmeno un suo discorso in queste settimane di crisi, e con lui è di colpo impallidito anche il ministro degli Esteri Mohammed Javad Zarif. Segno evidente che la dialettica interna è serrata, tanto da scavalcare i poteri «laici» (anche se Raisi è un chierico, l’unico civile che sia stato presidente era Ahmed Ahmadinejad) e il Governo.
Per parte sua Israele da anni deve affrontare il pericolo che viene dai «proxy» dell’Iran come Hezbollah in Libano e gli Houthi nello Yemen, come dalla crescente penetrazione iraniana in Iraq e soprattutto in Siria. Come si vede, la scacchiera è ampia e piena di pezzi. La lezione terribile del 7 ottobre del 2023, con il massacro ordito da Hamas che nessuno aveva immaginato, ci dice che è tuttora più saggio non fare troppe previsioni.