Il protagonista assoluto, però, in ogni caso resta Trump. È stato presidente, il che gli conferisce uno status particolare. Anche da sconfitto, nel 2020, ha saputo raccogliere 75 milioni di voti. La sua contestatissima presidenza ha avuto pagine buie (nomine sconcertanti, avvicendamenti continui di ministri e funzionari, il negazionismo verso il Covid, il rifiuto della sconfitta elettorale) ma anche brillanti risultati: inflazione all’1%, disoccupazione ai minimi storici, indice di prosperità delle famiglie in ascesa, nessun conflitto armato all’estero.

Ma ciò che mette Trump al centro della scena è un’altra caratteristica, da lui incarnata come nessun altro nella storia politica degli Stati Uniti: la capacità di essere nello stesso tempo uomo del sistema e uomo contro il sistema, di porsi come difensore dell’americano medio e dei suoi valori e intanto picconare alcuni dei riti e dei miti più radicati nel Paese. All’America del melting pot lui ora propone la deportazione degli immigrati illegali, a quella orgogliosa della propria potenza lo stop alle imprese militari all’estero. All’America orgogliosa di un sistema giudiziario che non guarda in faccia a nessuno fa balenare l’ipotesi di un repulisti tra i funzionari del ministero della Giustizia che lo hanno messo sotto accusa, a suo dire, com’è ovvio, ingiustamente. Chi lo vota non sceglie una proposta politica predefinita, sceglie lui. Con questo atteggiamento, Trump ha di fatto commissariato il Partito repubblicano, alla cui tradizione si richiamano invece DeSantis e ancor più Haley. Più che il candidato del partito, Trump è il candidato di Trump e dei milioni di americani che lo seguono, nella miglior tradizione del populismo internazionale.

È una realtà che spaventa i democratici e intimidisce anche DeSantis e Haley che, in una prudente ricerca del consenso, hanno finora evitato di attaccarlo sul piano personale, anche se prima o poi dovranno decidersi a farlo. Il punto debole di Trump, quasi inutile ricordarlo, è il numero enorme di incriminazioni (ben 91) da cui deve difendersi, i processi che dovrà affrontare, le condanne già subite. L’8 febbraio, poi, un appuntamento decisivo: quello con la Corte Suprema, che dovrà decidere se hanno ragione Stati come Colorado e Maine nel vietargli la candidatura sulla base del 14° emendamento: nessuno può assumere un incarico di governo se è stato coinvolto in una insurrezione contro gli Stati Uniti. Il riferimento è ai fatti del 6 gennaio di tre anni fa a Washington, con le proteste violente e l’assalto al Congresso di cui Trump è da molti considerato l’istigatore. Come si diceva, siamo solo agli inizi. Ma è già chiaro che nel 2024 avremo spesso modo di occuparci degli Usa. La sfida non sarà tanto tra Trump e Biden ma tra Trump e il sistema. Senza esclusione di colpi.

dall’Eco di Bergamo del 16 gennaio 2024