dall’Eco di Bergamo – Ieri, centinaia di vittime in Iran per le bombe fatte esplodere durante una cerimonia funebre in onore del generale Qassem Soleimani, ucciso il 3 gennaio di tre anni fa da un drone americano. Il 2 gennaio la morte di Saleh al-Aruri, uno dei massimi dirigenti di Hamas e tra i fondatori della sua ala militare, colpito nell’ufficio alla periferia di Beirut da un drone israeliano. Difficile non mettere in relazione i due attentati, soprattutto considerando che al-Aruri era considerato l’anello di congiunzione nelle triangolazioni tra l’Iran, Hamas e Hezbollah. Il quadro, però, non sarebbe completo, né correttamente leggibile, se non aggiungessimo alla lista il bombardamento con cui l’Israele di Netanyahu ha eliminato in Siria, il 25 dicembre, il generale iraniano Sayyed Razi Mousavi, alto ufficiale delle Guardie della Rivoluzione islamica e, a suo tempo, stretto collaboratore del generale Soleimani.
Dei tre episodi, due hanno una dinamica chiarissima. Il terzo, la strage di ieri al cimitero di Kerman, non ha un chiaro mandante né una esplicita rivendicazione, almeno per il momento. Si possono fare molte illazioni ma al dunque è inevitabile stringere su due ipotesi. La prima tira in ballo l’opposizione interna al regime degli ayatollah, quindi in primo luogo i Mojaheddin del Popolo, già responsabili di molti attentati, e magari anche il Consiglio nazionale della resistenza iraniana, coalizione composita ma dominata dai Mojaheddin, che in Iran sono ovviamente fuorilegge. È noto che i Mojaheddin hanno ricevuto o ricevono appoggi da Occidente, soprattutto da quando l’Unione europea (nel 2009) e gli Usa (dal 2012) li hanno tolti dalle rispettive liste nere delle organizzazioni terroristiche. La seconda ipotesi è che dietro l’attentato di Kerman ci sia un ordine di Netanyahu, la capacità militare di Israele con i suoi infiltrati, i servizi segreti e gli uomini dei reparti di élite Sayaret Matkal (Unità di ricognizione), già autori di molte incursioni contro basi e impianti in Iran oltre che dell’eliminazione di tecnici e scienziati legati al programma nucleare iraniano.
Resta un’ipotesi: un’azione di Israele. La cosa avrebbe una certa logica. Benjamin Netanyahu è un leader isolato e disperato. In patria, dopo aver formato il Governo più a destra della storia del Paese, ha tentato un colpo di mano contro la magistratura che per mesi è stato respinto da una larga parte della popolazione e nei giorni scorsi affondato dalla Corte Suprema. Dopo essersi proposto come garante della sicurezza di Israele e «domatore» dei palestinesi, il 7 ottobre Netanyahu ha subito il più grave attacco nell’ormai lunghissima storia della resistenza e del terrorismo palestinese. La sua unica risorsa, ora, è far durare il più a lungo possibile la spedizione a Gaza, rinviando il confronto con gli elettori e sperando nel frattempo di trovare la carta fortunata. Dalla Siria al Libano all’Iran, questi colpi potrebbero essere la sua strategia per conservare il potere. Colpire Hamas e l’Iran (la mano e la mente, nell’analisi più diffusa in Israele) per riguadagnare il prestigio perduto, nella convinzione che gli Usa e la Russia, per esigenze diverse e con strumenti diversi, terranno comunque a freno le teste calde.
Vedremo quel che succederà. Certo è che gli agenti della guerra si fanno di giorno in giorno più numerosi.