Vorrei tornare, passando per il Canada, sul caso del blogger saudita Raif Badawi, del quale ho parlato un paio di settimane fa nel quinto anniversario del suo arresto. Badawi, un giovane avvocato oggi quarantatreenne, fu fermato con l’accusa di apostasia per essere stato tra i fondatori di Free Saudi Liberals, un blog impegnato a sostenere la separazione tra amministrazione della giustizia e pratica religiosa. In seguito, Badawi è stato condannato a 10 anni di carcere e a mille frustate.
Quello che oggi va raccontato, perché è emblematico dell’atteggiamento dell’Occidente, è invece quanto è successo in Canada, il Paese dove dal 2013 vive Hensaf Haidar, moglie di Raif Badawi, insieme con i tre figli che hanno 14, 10 e 8 anni. L’ambasciata saudita di Ottawa ha convocato una conferenza stampa nel corso della quale l’ambasciatore Naif Alsudairy ha esplicitamente affermato che il Canada dovrebbe «farsi gli affari suoi» e non occuparsi di Badawi. «C’è stata la decisione di un tribunale saudita», ha proseguito l’ambasciatore, «e noi pensiamo che gli amici canadesi dovrebbero rispettarla, proprio come noi rispettiamo le decisioni dei loro tribunali».
Il paragone fa sorridere o rabbrividire, a seconda dei casi. Ma l’intera faccenda diventa agghiacciante se solo pensiamo che Justin Trudeau, il premier canadese, prima di citare Badawi, aveva avuto un colloquio telefonico con Abdullah bin Nasser al-Thani, primo ministro del Qatar, il Paese che l’Arabia Saudita e gli altri Paesi del Golfo Persico hanno da poco messo all’indice. Nella telefonata, Trudeau avrebbe espresso ad Al-Thani «preoccupazione per il sostegno (del Qatar, ndr) al terrorismo», sposando così la teoria sostenuta dai sauditi, a loro volta notori finanziatori dell’Isis e di altri movimenti terroristici.
La morale della favola, dunque, è questa: i sauditi non vogliono alleati né interlocutori, ma solo complici che sposino le loro strategie e tacciano su tutto il resto. Speriamo che Trudeau e altri prima o poi capiscano la lezione.