NATO, QUEL CHE LA RUSSIA VUOLE E QUELLO CHE PUO’

natoLe tappe dell'espansione della Nato verso Est.
Incontrarsi e dirsi addio? Il rischio che le trattative tra Usa e Russia si concludano qui, con una gita a Ginevra e la foto di gruppo, in effetti è grosso. D’altra parte i due contendenti l’avevano detto: Mosca chiarendo di non avere alcuna intenzione di trattare «per mesi o anni», Washington affidando alle seconde file il compito di sfogliare come una cipolla le proposte russe fino al gran finale del segretario di Stato Blinken, secondo il quale Vladimir Putin ha la fissa di restituire alla Russia ciò che un tempo fu dell’Urss, ovvero il controllo su Paesi poi diventati indipendenti. Così, una volta usciti dall’incontro, la vice-segretario di Stato Usa Wendy Sherman e il vice-ministro degli Esteri russo Sergey Ryabkov hanno sbrigato le formalità di rito («Incontro, serio, professionale, approfondito» ecc. ecc.) e poi hanno ricominciato a prendersi a pallate. «Vogliamo la garanzia granitica che Ucraina e Georgia non entreranno mai, mai, mai nella Nato», ha scandito il russo, un diplomatico di modi garbati e pacati che sta gestendo la crisi con grande grinta. «Nessuno può dire a un altro Paese in quale alleanza possa o non possa entrare», ha ribadito l’americana. I due tra l’altro si conoscono bene, si sono incontrati molte volte nelle commissioni impegnate sulla Siria e, prima ancora, per l’accordo sul nucleare iraniano del 2015. I bluff sono impossibili.

Sarebbe bello, però, se si trattasse solo di questioni personali. Perché il problema sta invece nella sostanza. La Russia si sente accerchiata e, soprattutto, vive come un incubo la prospettiva di avere armamenti Nato ai confini, ovvero così vicini da rendere un eventuale attacco missilistico o aereo non intercettabile e non replicabile. Per questo Mosca nel 2008 ha dato una lezione militare alla Georgia del provocatore Saakashvili, per questo nel 2014 non ha perso tempo nel rispondere all’Euromaidan di Kiev strappando all’Ucraina la Crimea e il Donbass. È una preoccupazione ragionevole? Dal punto di vista militare e strategico sì. Non c’è Paese della Nato che non ospiti basi e armi (anche atomiche) della Nato. Lo sa bene l’Italia, per fare un esempio geograficamente lontano dalla Russia, dall’Ucraina o dai Paesi Baltici. Negare questo significa dar ragione a Ryabkov quando dice: «Gli americani non capiscono quanto sia grave la situazione». Ovvero: che la Russia si sente davvero minacciata.

È altrettanto chiaro, però, che nessuna alleanza politico-militare (in questo caso la Nato) accetterebbe di farsi dire da un «avversario» chi può o non può farne parte. Nessun Paese, non solo Ucraina e Georgia, accetterebbe di farsi dire da altri con chi può o non può allearsi. E nessuna potenza, nel caso specifico gli Usa, accetterebbe di dare ad altri Paesi la patente di amici di serie B, come avverrebbe a Georgia e Ucraina se Biden accettasse le richieste russe. Tanto più che la collaborazione dei Paesi dell’Est europeo è utilissima agli Usa per tenere a bada eventuali smanie dell’Unione Europea.

Il cuore della questione è politico, anzi: geopolitico. La Nato ha iniziato a espandersi verso Est già negli anni Novanta. Cioè, quando a Mosca c’erano i governi più filo-occidentali della storia e la Russia tutto era tranne che bellicosa. L’idea degli Usa, di cui la Nato è un’estensione militare, era di approfittare delle debolezze altrui per «occupare» la maggiore quantità di spazio possibile. Quello che nessuno prevedeva allora (anzi, l’idea più comune era l’opposta) era che la Russia, e in misura anche maggiore la Cina, potesse risollevarsi così in fretta, recuperando orgoglio e potenza. Intendiamoci, Mosca non può competere con Washington (non solo in economia: il suo bilancio per la Difesa è un decimo di quello americano) ma può, per fare solo qualche esempio, mandare a monte i suoi piani in Siria o azzoppare l’Ucraina diventata feudo Usa. O stringere i rapporti con l’ex nemica Cina in un modo che fa tremare chi immagina le risorse energetiche russe al servizio della macchina produttiva cinese.

Per ottenere qualcosa, adesso, si tratterebbe di smontare decenni di politica mediocre e senza visione, concentrata solo su piccoli guadagni del breve periodo che hanno aperto la strada a disastri, come appunto ora si vede, nel lungo periodo. Cosa che verrebbe da definire impossibile, se non fosse che è meno triste chiamarla invece difficile.

Pubblicato sull’Eco di Bergamo dell’11 gennaio 2021

Fulvio Scaglione

Mi chiamo Fulvio Scaglione, sono nato nel 1957, sono giornalista professionista dal 1983. Dal 2000 al 2016 sono stato vice-direttore del settimanale "Famiglia Cristiana", di cui nel 2010 ho anche varato l'edizione on-line. Sono stato corrispondente da Mosca, ho seguito la transizione della Russia e delle ex repubbliche sovietiche, poi l'Afghanistan, l'Iraq e i temi del Medio Oriente. Ho pubblicato i seguenti libri: "Bye Bye Baghdad" (Fratelli Frilli Editori, 2003) e "La Russia è tornata" (Boroli Editore, 2005), "I cristiani e il Medio Oriente" (Edizioni San Paolo, 2008), "Il patto con il diavolo" (Rizzoli 2017).

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