Abdelaziz Bouteflika, 82 anni d’età, 20 di permanenza al potere e 6 (dopo l’ictus del 2013) su una sedia a rotelle, si è dimesso. L’ Algeria può ora cominciare un cammino di rinnovamento rispetto alla classe politica emersa dal periodo post-coloniale degli anni Sessanta. Una transizione, ma verso dove? Verso chi? Le cronache di queste settimane hanno molto esaltato i milioni di manifestanti scesi in piazza e gli appelli alla democrazia. Molti i proclami per una modernizzazione del Paese in cui gli idrocarburi contano per il 95% delle esportazioni e per il 60% degli introiti dello Stato. Ma la parola decisiva l’hanno detta i militari. In particolare il generale Ahmed Gaid Salah, il capo dell’esercito che, dopo averlo a lungo sostenuto, ha staccato la spina al vecchio compare (e quasi coetaneo) Boutef.
In Algeria, insomma, si è replicato quanto è successo qualche anno fa in Egitto. Qui i militari hanno rifiutato di intervenire contro la folla che protestava, in Egitto i militari fecero altrettanto quando non vollero intervenire contro le manifestazioni di piazza Tahrir. In Egitto furono i militari a consentire la caduta di Hosni Mubarak nel 2011 e a orchestrare quella del presidente Mohammed Morsi nel 2013. In Algeria, come detto, è stato l’esercito a staccare la spina a Bouteflika. Sia in Egitto sia in Algeria sono i militari i veri padroni dello Stato. Anche per l’Algeria, infatti, i dati parlano chiaro. Nel 2017 il Paese era al 109° posto al mondo per Prodotto interno lordo pro capite (15.230 dollari) ma era al 5° posto nel mondo per spese militari in rapporto alla ricchezza nazionale: 5,81 per cento del Prodotto interno lordo. Bouteflika stava molto attento a gratificare gli uomini in uniforme.
In questi Paesi, dunque, i militari possono permettersi un rivolgimento anche radicale dei vertici politici perché sanno che il loro potere rimarrà comunque intatto.
Sia per l’Egitto sia per l’Algeria questo fenomeno si spiega con la compattezza della società. Gli algerini sono arabi-berberi al 99 per cento e musulmani sunniti al 99 per cento. In altri Paesi, per esempio in Siria, Libia, Iraq e Bahrein, la società è molto più composita, dal punto di vista etnico come da quello religioso. Una frammentazione che si riflette nelle forze armate. In caso di protesta di massa o di rivolta rispetto al potere, rappresentato da un’etnia o una fazione, alcune componenti del mondo militare possono essere più inclini a intervenire con la forza contro quelli che, ai loro occhi, rappresentano non solo un rischio politico ma anche una sfida etnico-religiosa.
Certo, se si pensa agli ultimi anni e a quanto è successo in Medio Oriente e Africa del Nord dopo le Primavere arabe del 2011, si può anche sposare la tesi che la situazione di Egitto e Algeria sia meno pericolosa. I sommovimenti in Siria, Libia, Bahrein sono stati di certo più drammatici.
Sarebbe però un errore fare di questa constatazione un principio assoluto. Intanto perché l’Algeria, negli anni Novanta, ha conosciuto una sanguinosissima repressione, condotta proprio dalle Forze armate, dopo la vittoria elettorale (regolare e democratica) del Fronte di salvezza islamico nelle elezioni del 1991. E si parla di 150 mila civili uccisi. In secondo luogo, siamo proprio sicuri che lo strapotere dei militari sia così benefico? Siamo certi che Egitto e Algeria, se nei decenni fossero riusciti a far stare le forze armate al loro posto, oggi sarebbero in condizioni peggiori di quelle in cui sono?
Pubblicato in Babylon, il blog di Terrasanta.net