Ripubblico qui, diviso in tre parti, il reportage su Israele e Palestina che ho scritto per Famiglia Cristiana. Terza parte.
Tra Gerusalemme e Betlemme ci sono 7,34 chilometri. In mezzo c’è quella cosa che alcuni chiamano Muro e altri Barriera e che chiameremo invece Catena. Perché lega in un abbraccio di rancori israeliani e palestinesi che si sentono lontanissimi ma non possono separarsi.
SCENA TERZA, BETLEMME DEISHA. Anche Ibrahim Zawari ha perso un figlio. Lui, però, dice: «Sono così orgoglioso! Mio nonno è morto nel 1936 a Tulkarem nella rivolta contro gli inglesi e questo amore per la patria Palestina si è tramandato per generazioni nella nostra famiglia».
Deisha è l’altro grande “campo profughi” di Betlemme. Alle sue porte sorge la tenda dove, per una settimana, Ibrahim e i parenti ricevono le condoglianze per la morte di Muteaz, 27 anni, ucciso da una fucilata israeliana nei pressi della Catena, in questa intifada non intifada. Lui era cuoco, aveva un buon posto in Francia. È tornato perché temeva per la vita del fratello Ghassan, chiuso in un carcere israeliano nel deserto del Negev e per 67 giorni in sciopero della fame.
Intifada, nonostante…
A Betlemme, Muteaz lavorava all’Intercontinental, un albergo che si trova nella zona dove ogni giorno, nel pomeriggio, va in scena l’assalto alla Catena. Ormai è un rito: un pezzo di strada viene chiuso, i passanti guardano, decine di ragazzi tirano sassi e molotov, gli israeliani rispondono con i lacrimogeni e qualche volta peggio. E’ l’intifada di questi tempi.
Muteaz è uscito nel momento sbagliato dal lavoro ed è stato trasformato in uno shaid, un martire. Dalla fucilata degli altri e dalla pressione dei suoi. «Ho cinque figli e una figlia e tutti, tranne Muteaz, siamo stati nelle prigioni di Israele. Sommati, abbiamo fatto 25 anni di carcere», dice il padre Ibrahim. Intorno a lui molti giovani indossano magliette con la foto di coetanei che non ci sono più. Altri shaid, morti per lottare contro Israele e prendere su di sé il fardello dei nonni e dei padri. L’altoparlante scandisce inni e discorsi in cui ricorrono le parole yehud (ebreo) e intifada.
«Questa è la strada giusta», prosegue Ibrahim indicando i manifesti, «la strada dell’unità». A lui, seguace del cristiano ortodosso George Habash, marxista e fondatore del Movimento popolare per la liberazione della Palestina, sono arrivate condoglianze da Al Fatah, Hamas e persino dall’Hezbollah libanese. Cede solo per un attimo, guarda il ritratto del figlio e dice: «Sembra che voglia ancora dire qualcosa».
Occhi lucidi, ma qui non si piange in pubblico. Mi chiedo che cosa direbbe il povero Muteaz di questi striscioni, di quest’aura di combattente che vogliono costruire intorno a lui che non faceva politica, amava cucinare ed era tornato per visitare il fratello in carcere. Il permesso era per il giorno 14. Lui è morto il 13.
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