TU CHIAMALA, SE PUOI, INTIFADA (1)

intifadaUna postazione della polizia israeliana presso la Porta di Damasco, a Gerusalemme (foto di F. Scaglione).

Ripubblico qui, diviso in tre parti, il reportage su Israele e Palestina che ho scritto per Famiglia Cristiana. Prima parte.

Tra Gerusalemme e Betlemme ci sono 7,34 chilometri. In mezzo c’è quella cosa che alcuni chiamano Muro e altri Barriera e che chiameremo invece Catena. Perché lega in un abbraccio di rancori israeliani e palestinesi che si sentono lontanissimi ma non possono separarsi.

SCENA PRIMA, GERUSALEMME. L’ispettore capo Micky Rosenfeld arriva quasi di corsa alla porta di Jaffa, reggendo il giubbotto antiproiettile diventato anticoltello. Fa caldo ma lui si ricompone subito: otto anni nello Yamam, l’unità speciale di lotta al terrorismo delle guardie di frontiera, ti regalano una certa forma fisica. Sono giornate nere: civili uccisi o feriti, terrore nelle strade. Gli israeliani hanno paura di essere colpiti dai ragazzi che animano l’intifada dei coltelli. Gli arabi hanno paura di essere scambiati per attentatori. Risultato: la Città Vecchia quasi deserta, polizia ovunque, le vecchie barriere (il mio quartiere, il tuo quartiere) più alte e puntute che mai.

«Il difficile di questa situazione», dice Rosenfeld, «è che abbiamo a che fare con dei lupi solitari. Non c’è un capo, un coordinamento, una strategia. Abbiamo studiato i loro profili e il risultato è sempre quello: gente che la mattina, al posto di andare a lavorare, va ad aggredire qualcuno. Noi rispondiamo alzando il livello generale della sicurezza: 3.500 poliziotti dentro e fuori Gerusalemme, 1.200 guardie di frontiera e, dopo le misure decise dal Governo, altri 300 soldati, tutti sotto il comando della polizia nazionale».

Intifada ieri e oggi

Rosenfeld invita a non parlare di intifada: «Il livello di violenza non è nemmeno paragonabile a quello del 1987 e 2000». Ma allora perché questa esplosione di aggressioni? «I primi responsabili sono i movimenti islamisti», dice: «La loro propaganda, soprattutto sui social media, fa presa sulle menti di questi estremisti isolati». La causa, dunque, sarebbe la lunga polemica sullo status della Spianata delle Moschee, con le provocazioni della destra nazionalista e ultraortodossa che il premier Netanyahu non ha saputo o voluto controllare e la pronta strumentalizzazione degli islamisti radicali (vogliono portarci via la moschea di Al Aqsa…), ai quali lo stentato Abu Mazen fa giusto il solletico.

Ma l’effetto terrorizza Israele. Nelle prime due intifada, i kamikaze palestinesi arrivavano dai Territori: Hebron, Nablus, i centri dove ribolle la rabbia per l’occupazione e gli insediamenti. I coltelli, o le auto che si lanciano contro la gente che aspetta l’autobus, invece, escono dalle cucine e dai garage di palestinesi che risiedono in Israele, quasi tutti intorno a Gerusalemme.

Dopo essere andato tanto avanti nei Territori, Israele scopre che con questa (forse) intifada il pericolo che arriva dalle retrovie, dove gli arabi sono il 21% della popolazione. E verifica il fallimento della “israelizzazione” cara a politici e intellettuali. Vivere meglio dei loro coetanei della Palestina a quanto pare non basta a questi ragazzi nati cinquant’anni dopo Israele.

E così si torna alla Città Vecchia deserta. Mentre l’attraverso da Jaffa alla Porta di Damasco ripenso a due cose che mi ha detto Rosenfeld. La prima è che non lo preoccupa che tanti cittadini, incitati anche da politici come il sindaco di Gerusalemme Nir Barkat, ora girino armati: «Tutti hanno ricevuto un addestramento professionale con il servizio militare, sanno cosa fare. E un loro intervento può contribuire a una pronta risposta agli attacchi». La seconda: chi accusa la polizia di uso eccessivo della forza sappia che «i nostri uomini vengono aggrediti all’improvviso e a corta distanza. Se possono sparano alle gambe, ma succede che il terrorista resti ucciso».

Arrivato alla Porta di Damasco scambio quattro parole con i poliziotti di guardia. Alcuni di quelli dentro mangiano, quelli fuori sbirciano le telecamere di Al Arabiya e altre Tv a pochi metri da loro. Ma sono tutti molto all’erta e mi stupisco quando si lasciano fotografare, rispetto alla tensione generale sono pure cortesi. Quaranta minuti dopo, proprio qui, forse proprio loro, vengono attaccati da un tipo armato di coltello, che viene fatto secco. Un altro capitolo di questa intifada non intifada. La Città Santa ha i nervi scoperti.

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Fulvio Scaglione

Mi chiamo Fulvio Scaglione, sono nato nel 1957, sono giornalista professionista dal 1983. Dal 2000 al 2016 sono stato vice-direttore del settimanale "Famiglia Cristiana", di cui nel 2010 ho anche varato l'edizione on-line. Sono stato corrispondente da Mosca, ho seguito la transizione della Russia e delle ex repubbliche sovietiche, poi l'Afghanistan, l'Iraq e i temi del Medio Oriente. Ho pubblicato i seguenti libri: "Bye Bye Baghdad" (Fratelli Frilli Editori, 2003) e "La Russia è tornata" (Boroli Editore, 2005), "I cristiani e il Medio Oriente" (Edizioni San Paolo, 2008), "Il patto con il diavolo" (Rizzoli 2017).

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