Della Russia si dice spesso che ha un sistema economico disastrato, retto solo dal settore energetico (petrolio e gas), diroccato pure lui. C’è della verità, in questo. Però proprio in questi giorni Kirill Molodtsov, vice-ministro all’Energia, ha comunicato che nel 2014 la Russia raggiungerà una produzione di 525 milioni di tonnellate di petrolio al giorno, cioè 10,54 milioni di barili, con un incremento dello 0,14% sul 2013. Sarebbe il nuovo record produttivo del periodo post-sovietico, abbastanza vicino al record assoluto che risale invece al 1988, quando ancora c’era l’Urss: 11,41 milioni di barili al giorno.
Non male, tenendo conto del fatto che già il 2013 era stato un anno record, con un aumento del greggio prodotto pari all’1,4%. Ancor meglio se pensiamo che analogo record è atteso anche nell’estrazione di gas naturale, settore comunemente ritenuto più moderno e attrezzato di quello petrolifero. Il gas estratto nel 2014 dovrebbe arrivare a 700 miliardi di metri cubi, inutile dirlo, nuovo record post-sovietico. Nel 2013 l’estrazione era stata di 668 miliardi di metri cubi, pari a un quarto dei consumi di gas dell’intera Europa. E a proposito di Europa: la quota russa di gas importato è cresciuta negli ultimi tempi grazie a una politica molto aggressiva dal punto di vista commerciale (leggi: Gazprom ha tagliato i prezzi), mentre si è ridotta quella di altri produttori tradizionalmente forti come la Norvegia o i Paesi dell’Africa del Nord.
Secondo gli esperti dell’Agenzia Internazionale dell’Energia, la Russia riuscirà a reggere questi livelli di produzione fino al 2035, poi i tradizionali giacimenti andranno incontro a un inevitabile calo. Nel frattempo, il Cremlino, il cui potere si regge sulle esportazioni di gas e petrolio, sta facendo di tutto perché il prezzo del barile non scenda dagli attuali 100 dollari o, per meglio dire, scenda sotto quella soglia il più tardi possibile: in quest’ottica ha siglato, tra l’altro, l’importante accordo con l’Iran, in base al quale il maggior produttore di petrolio al mondo, la Russia appunto, compra greggio dagli ayatollah soprattutto per toglierlo dal mercato.
Ma la vera insidia, per Mosca, viene dagli Usa, dove le nuove tecnologie hanno permesso uno sfruttamento dello shale oil (il petrolio estratto dalle rocce o dall’argilla) che nel giro di pochissimi anni (addirittura uno o due, secondo alcuno analisti) porterà gli americani a essere i primi produttori di petrolio al mondo, forse con 11 milioni di barili al giorno, scavalcando in un colpo solo Arabia Saudita e Russia. Putin e i suoi hanno dovuto darsi una mossa e, dopo aver a lungo snobbato lo shale oil, hanno varato una politica di incentivi fiscali per le compagnie disposte a investire, soprattutto nella Siberia occidentale, nel nuovo settore.
Sempre secondo il vice-ministro Molodtsov, la quota di shale oil nel totale delle estrazioni russe dovrebbe passare dall’attuale 0,2% a un solido 11% entro il 2020. Forse è un po’ ottimista. Osservatori un po’ più neutrali prevedono 800 mila barili al giorno entro il 2035. Si vedrà. Nel frattempo, la produzione aumenta e i prezzi restano relativamente stabili. A meno di cataclismi, il Cremlino avrà un bel ventennio di incassi sicuri su cui basare la propria politica. Interna e soprattutto estera.