Poliziotti in assetto antisommossa, morti per le strade, carceri piene, gente furibonda, i tecnici del regime a caccia dei messaggi lanciati via Twitter o Facebook verso il mondo libero. Ma no, non è l’Iran degli ayatollah. È l’Egitto del laico Hosni Mubarak, che comanda dal 1981 a colpi di elezioni fasulle ma che proprio ora, dice Hillary Clinton con gran sprezzo del ridicolo, sarebbe impegnato a «capire come rispondere alle legittime necessità e agli interessi del popolo».
Era scontato che il vento del Maghreb, lo tsunami popolare che ha sconvolto la Tunisia e incrinato il regime che dal 1992 governa l’Algeria con lo «stato d’emergenza», prima o poi soffiasse anche sull’Egitto. Ma la domanda vera è: perché i «nostri» finiscono per comportarsi come i «loro», i «buoni» (l’Egitto, con la Giordania, ha firmato un trattato di pace con Israele, è un bastione della lotta contro l’integralismo islamico) come i «cattivi»? Perché la democrazia non s’insedia negli «Stati canaglia» ma nemmeno negli Stati alleati dell’Occidente? E perché, al posto di portarla con la guerra in «quelli» (peraltro senza gran successo), non proviamo a imporla con la pace in «questi»?
Con l’Egitto, e dopo la Tunisia, la questione si avvicina insidiosamente alle nostre sponde. Fermo
restando l’ancoraggio del Cairo agli Stati Uniti (l’Egitto è il secondo Paese al mondo, dopo Israele, per aiuti diretti americani, che da soli formano il 9% del suo Prodotto interno lordo; gli Usa valgono l’8% delle esportazioni e il 10% delle importazioni egiziane, primo partner commerciale), l’Italia è il secondo recettore al mondo di prodotti egiziani e il quarto esportatore verso l’Egitto. La voce di Washington e di Roma dovrebbe bastare per imporre meno corruzione, meno familismo, un poco più di libertà (secondo Reporters sans Frontières, la libertà d’espressione in Egitto è al 143° posto su 179 nazioni censite), un poco più d’efficienza. Ma non succede perché non proviamo nemmeno a chiederlo.
Tutto oggi viene sacrificato al (o giustificato con) timore del fondamentalismo islamico, secondo una strategia che ha innegabili ragioni ma che, al momento, vede il Sud del Mediterraneo (dal Marocco dei prezzi degli alimentari cresciuti di colpo del 20% al Libano dominato da Hezbollah) ridotto a una polveriera in cui persino l’islamismo ha un ruolo secondario rispetto alla pura e semplice insoddisfazione della gente.
Scontiamo in questo una politica estera che non ha quasi mai considerato il Medio Oriente un soggetto ma quasi sempre un oggetto, un bene. Da gestire ma non da valorizzare. L’Egitto occupato nel 1882 dall’Inghilterra indebitata, il rovesciamento del governo Mossadeq in Iran (1951-1953) che voleva nazionalizzare il petrolio, l’invasione anglo-francese del Canale di Suez nel 1956, il sostegno offerto e ritirato a Saddam Hussein e a una schiera di altri satrapi orientali, sono stati i segnali di un marchio di sfiducia apposto a priori a un’intera regione. C’entrano gli interessi economici assai più che l’islam. Quello stesso islam che non ostacola né sviluppo economico di altri Paesi musulmani (per esempio l’Indonesia, il più popoloso al mondo) né i nostri rapporti commerciali con essi.
Dai tumulti di queste settimane il Maghreb può uscire in due modi. Riaffidandosi a proconsoli come i vari Ben Alì e Mubarak, che barattano la battaglia agli estremisti islamici per un’economia di rapina. Cioè spostando il problema un po’ più in là e intanto facendolo incancrenire. Oppure svoltando verso un minimo di partecipazione popolare e di giustizia sociale. Per questo, però, siamo essenziali noi. È ora di muoversi.
Da un Paese che trasforma il Ministero degli Esteri in Ministero degli AFFARI Esteri se fossi un Egiziano qualsiasi non mi aspetterei molto.
Caro Enrico,
è così, come dici tu. E purtroppo non vale solo per l’Italia.
Ciao, a presto
fulvio