SINODO: ISRAELE CRITICA MA LA CRISI E’ SUA

Se il Sinodo dei vescovi per il Medio Oriente, appena concluso a Roma, si fosse risolto con qualche preghiera e qualche bella esortazione, non ci sarebbero state le polemiche con  Israele. Le polemiche sono scoppiate perché il Sinodo, fin dai documenti preparatori (in particolare l’Instrumentum Laboris) ha voluto affrontare i problemi reali, qualche volta senza tanti giri di parole.

Benedetto XVI poco prima del Sinodo per il Medio oriente, durante un incontro con i sacerdoti di lingua araba.

Benedetto XVI poco prima del Sinodo per il Medio Oriente, durante un incontro speciale di preghiera con i sacerdoti di lingua araba presenti a Roma.

Danny Ayalon, vice ministro degli Esteri di Israele, ha parlato di un Sinodo “preso in ostaggio da una maggioranza anti-israeliana” e ha poi espresso disappunto “perchè questo importante Sinodo è diventato un forum per attacchi politici contro Israele, nel segno della miglior tradizione della propoaganda araba”. Ha fatto arrabbiare gli israeliani la frase pronunciata da monsignor Cyrylle Salim Boustros, vescovo greco-melchita della diaspora negli Usa: “Per un cristiano non c’è più una Terra Promessa al popolo ebraico. C’è il regno di Dio su tutta la terra”.  Frase che nel testo scritto del Messaggio finale del Sinodo, nel paragrafo dedicato “ai nostri concittadini ebrei”, recita: “Non ci si può più basare sul tema della Terra Promessa per giustificare il ritorno degli ebrei in Israele e l’esilio dei palestinesi”.

Che per i cristiani ci sia il regno di Dio sulla terra, e non più questa o quella terra promessa a questo o quel popolo, è persino banale ripeterlo. Credo che i politici isrealiani si siano arrabbiati più per l’altra frase, che in tono composto ricorda allo Stato ebraico che puoi avere la teologia che ti pare ma poi devi operare in questo mondo, e lì si giudica ciò che fai. Se, per fare un esempio, c’è un’altra ragione (a parte il recupero della Terra Promessa di cui sopra) che giustifichi la ripetuta appropriazione di terra palestinese e la costruzione di case sul suolo altrui (come le quasi 600 nuove unità abitative autorizzate proprio mentre si finge di trattare), Israele lo dica. Altrimenti, meglio non polemizzare.

La vera verità, però, è un’altra. Le polemiche vengono dagli uffici del famoso Avigdor Lieberman, il ministro degli Esteri che Obama e molti altri (compresi tutti i Governi dei Paesi arabi) rifiutano di incontrare, mentre incontrano regolarmente il primo ministro

Avigdor Lieberman, ministro degli Esteri di Israele.

Avigdor Lieberman, ministro degli Esteri di Israele.

Netanyahu e il ministro della Difesa Barak. Il Governo di Israele è in una fase di stallo, quasi di impotenza: Netanyahu ha emarginato Lieberman, il quale però può far cadere il Governo. Questa emiparesi politica, però, viene da lontano. Per anni Israele ha usato i “coloni” per frammentare la continuità del territorio palestinese e garantirsi maggiore sicurezza. Oggi, però, non è più così. I palestinesi, anche quelli armati, non sono una minaccia per l’esistenza dello Stato di Israele, che nella regione è una potenza economica e militare ineguagliata. Ma le colonie sono diventate intoccabili perché sono l’unica enclave israeliana in cui continua l’aliya, la “salita”, il ritorno degli ebrei verso lo Stato ebraico teorizzata dai padri fondatori.In esse abita ormai un nucleo così numeroso di persone da influenzare la politica nazionale.

In altre parole, le colonie non vengono ridimensionate o rimosse non per timore dei palestinesi, ma perché non è più possibile farlo senza pagare un prezzo politico esorbitante. Proprio su questo conta Lieberman. Se Netanyahu tocca le colonie e gli insediamenti, perde voti a favore della destra radicale di Lieberman. Se non lo fa, di fatto si schiaccia sulla linea di Lieberman, che vince ancora. I palestinesi sono in condizioni penose, i palestinesi cristiani come tutti gli altri. Ma la vera crisi è di Israele. Mentre Benedetto XVI definisce “urgente” e “indispensabile” la pace in Medio Oriente, Lieberman se ne va all’Onu a dire che la pace, se mai ci sarà, è distante ancora decenni. E’ questo l’uomo che Israele si è dato per gestire i rapporti col mondo, altro che propaganda filo-araba.

Fulvio Scaglione

Mi chiamo Fulvio Scaglione, sono nato nel 1957, sono giornalista professionista dal 1983. Dal 2000 al 2016 sono stato vice-direttore del settimanale "Famiglia Cristiana", di cui nel 2010 ho anche varato l'edizione on-line. Sono stato corrispondente da Mosca, ho seguito la transizione della Russia e delle ex repubbliche sovietiche, poi l'Afghanistan, l'Iraq e i temi del Medio Oriente. Ho pubblicato i seguenti libri: "Bye Bye Baghdad" (Fratelli Frilli Editori, 2003) e "La Russia è tornata" (Boroli Editore, 2005), "I cristiani e il Medio Oriente" (Edizioni San Paolo, 2008), "Il patto con il diavolo" (Rizzoli 2017).

5 Commenti

  1. fabio cangiotti said:

    Caro Fulvio, la tua analisi magari è corretta ma mi sembra anche un parlare d’altro. Voglio dire che i Lieberman esisteranno sempre e avranno peso in Israele fino a che non ci sarà un impegno solenne del mondo arabo-palestinese al riconoscimento definitivo di Israele. E questo è un problema che dura dal 14 maggio del 48, c’è poco da fare. E’ possibile criticare e limitare l’azione politica di Israele solo a posteriori di questo atto, che deve essere politico e irrevocabile. Altrimenti si continua a gettare le basi della delegittimazione di quello Stato, anche da parte dei cristiani del Medioriente, come purtroppo è risultato evidente in scritti come Kairos Palestina (al netto delle citazioni bibliche, una analisi sovrapponibile al manifesto Olp e allo statuto di Hamas, un testo supponente e ambiguo) e più ancora da dichiarazioni come quelle dell’ex-nunzio Farhat, quello che ha paragonato Israele a un tumore impiantato in un corpo sano (pari pari a Amhadinejad). E questi sarebbero i mediatori cristiani del conflitto arabo-israeliano? Riguardo alle colonie, è evidente che sono un problema enorme, perché non si tratta di 5000 persone come a Gaza, ma di duecentomila. Chiederne tout court il ritiro senza contropartite politiche e/o economiche è semplicemente irrealismo, non solo perché il prezzo politico è esorbitante per i governanti di Israele, ma per una enorme difficoltà oggettiva. Senza contare che il giorno dopo un eventuale ritiro o restituzione, Israele sarebbe immediatamente attaccata, come l’esperienza insegna, checchè ne possano garantire i vescovi arabi.
    Quanto alle costruzioni di nuovi alloggi, sai bene che Nethanyau li aveva congelati per dieci mesi come gesto di buona volontà per trattare, ma come dice il cantore: …dialogo obbligato / sfibrato ad oltranza / lo invoca chi arretra / lo scansa chi avanza / ciascuno basta a sè / e il conto non torna…e Mons. Sabbah a Corradino Mineo sul Tre una cosa giusta l’ ha detta, che il leader palestinese che farà la pace con Israele è destinato a fare la fine di Rabin (cosa che Arafat sapeva bene, ecco perché rifiutò nel 2000 la pace in cambio dei territori).
    In definitiva, questo è stato un Sinodo con molti accenti antisionisti (con i dovuti distinguo si capisce) e davvero poco coraggioso nei confronti di Israele, bersaglio al solito facile facile. Ma era prevedibile.

  2. Fulvio Scaglione said:

    Caro Fabio,
    pubblico volentieri il tuo intervento non solo per l’ormai antica consuetudine che ci lega, ma anche perché è perfettamente double face. Voglio dire: se al posto di “Israele” scrivi “palestinesi” funziona uguale. Per dire: qual è la garanzia politica che Israele offre in cambio del “riconoscimento solenne di Israele”? E poi: il mondo arabo il riconoscimento l’ha già offerto, in cambio del ritiro nei confini del 1967. Ma è proprio questo che Israele non può fare, perché negli anni ha riempito le colonie di “coloni” (non mi piace né colonie né coloni, ma non so che cosa scrivere) dallo spirito radicale e intransigente che adesso non può più allontanare, anche perché non sa dove metterli. Non è vero, infine, che i Lieberman ci sono sempre stati: al contrario, non è un caso che ci sia un Lieberman proprio adesso, un immigrato come le centinaia di migliaia che Israele ha importato, fossero o no ebrei, per rimpolpare la popolazione che langue. Per finire: non so se Arafat sarebbe stato ucciso ma Rabin in effetti è stato ammazzato. Dai suoi. Qualcosa anche questo vorrà dire.
    Ciao, a presto

    Fulvio

    Vedi, Fabio, quello che non mi convince mai nei ragionamenti su Israele e palestinesi è che troppo spesso si ha la tendenza di trovare tutta la ragione da una parte e tutto il torto dall’altra. Se fossi così, la pace ci sarebbe già stata. Magari imposta dall’uno sull’altro, ingiusta,

  3. Fulvio Scaglione said:

    Caro Fabio,
    pubblico volentieri il tuo intervento non solo per l’ormai antica consuetudine che ci lega, ma anche perché è perfettamente double face. Voglio dire: se al posto di “Israele” scrivi “palestinesi” funziona uguale. Per dire: qual è la garanzia politica che Israele offre in cambio del “riconoscimento solenne di Israele”? E poi: il mondo arabo il riconoscimento l’ha già offerto, in cambio del ritiro nei confini del 1967. Ma è proprio questo che Israele non può fare, perché negli anni ha riempito le colonie di “coloni” (non mi piace né colonie né coloni, ma non so che cosa scrivere) dallo spirito radicale e intransigente che adesso non può più allontanare, anche perché non sa dove metterli. Non è vero, infine, che i Lieberman ci sono sempre stati: al contrario, non è un caso che ci sia un Lieberman proprio adesso, un immigrato come le centinaia di migliaia che Israele ha importato, fossero o no ebrei, per rimpolpare la popolazione che langue. Per finire: non so se Arafat sarebbe stato ucciso ma Rabin in effetti è stato ammazzato. Dai suoi. Qualcosa anche questo vorrà dire.
    Vedi, Fabio, quello che non mi convince mai nei ragionamenti su Israele e palestinesi è che troppo spesso si ha la tendenza di trovare tutta la ragione da una parte e tutto il torto dall’altra. Se fossi così, la pace ci sarebbe già stata. Magari imposta dall’uno sull’altro, ingiusta, ma ci sarebbe. Il fatto che si fatichi così tanto a trovarla dipende proprio dal fatto che torti e ragioni si intrecciano inestricabilmente. almeno secondo me.
    Ciao, a presto

    Fulvio

  4. fabio cangiotti said:

    Caro Fulvio, concordo da sempre sulla inestricabilità delle ragioni e torti, anche se personalmente mi concentro sulla parte che indubitabilmente riceve molto più odio e irrazionale incomprensione, basta linkare qualsiasi argomento su Internet per rendersene conto. Ovviamente poi sono particolarmente sensibile alle posizioni della Chiesa e di noi cristiani, che così tanto abbiamo sbagliato nei riguardi degli ebrei e secondo me non possiamo concederci il lusso di ripeterci. Questo significa correre continuamente in un faticoso e necessario esercizio di equità visto come stanno le cose. Questa equità la riconosco a te (altrimenti non corrisponderei più), stento a riconoscerla a quel vescovo che tu citi (Boustros) il quale a proposito degli Hezbollah ebbe a dichiarare che Israele era il “comune nemico”. E così per altri personaggi anche cristiani, alcuni da te intervistati nel tuo libro, per i quali infine Israele è l’intruso, il nemico. Per varie ragioni, soprattutto laiche ma anche di fede (se mi è permesso) non la penso così, e certamente in minoranza anche tra i cattolici mi batto per Israele il più lealmente possibile, con la massima attenzione per i diritti dei palestinesi, peraltro così mal rappresentati dai loro politici e dagli arabi vicini in sessant’anni, che molte occasioni storiche hanno gettato al vento per creare una patria ai palestinesi. L’ultima come sai fu con Clinton nel 2000, è fuor di dubbio che il laburista Barak avesse offerto una soluzione ragionevole territori contro pace, ottenendo in risposta un rifiuto e l’Intifada suicidaria. Puoi dubitare che i Lieberman vengano da lì?
    Il Sinodo quindi mi ha deluso per l’irrilevanza delle sue posizioni, anche teologiche, benchè non fosse lecito aspettarsi di meglio. Che senso ha rimproverare agli ebrei l’archetipo biblico della Terra Promessa (quale giustificazione del ritorno, che poi ritorno non è del tutto, essendoci sempre stata una presenza minoritaria nei luoghi) e tacere della gelosia assolutista dell’islam per le stesse terre? Per noi cristiani c’è il regno di Dio su tutta la terra certo, ma ciò non toglie che anche noi abbiamo tentato quelle terre di (ri)conquistarle con le crociate, o no? E non erano cristiane le potenze mandatarie? Esilio dei palestinesi, certo, ma quanti ne vivono come cittadini in Israele? e quanti ebrei potrebbero vivere in uno Stato palestinese senza correre il rischio di essere linciati? Insomma molti vescovi secondo me hanno assai spropositato e troppo taciuto (con qualche eccezione) sul fatto che dove bruca l’Islam, per gli altri non ce n’è proprio, detto alla buona. Per fortuna una voce autorevole come quella di padre Pizzaballa (firmatario a sua…insaputa del documento Kairos Palestina, tanto per capire i metodi) ha dichiarato che il Sinodo rappresenta se stesso (cioè la Chiesa Mediorientale) e non la Chiesa tutta, tantomeno il Vaticano.
    Ciao, porta pazienza per la mia passionalità, ma tant’è.

  5. Fulvio Scaglione said:

    Caro Fabio,
    io sono d’accordo con quasi tutto ciò che tu dici. Credo che la differenza sia nelle conclusioni che tiriamo. Soprattutto, forse, nel giudizio che diamo dell’Israele oggi: che a te (se capisco bene) pare una vittima di difendere e a me pare soprattutto una potenza che stenta ad assumersi le responsabilità che quello status comporta.
    Su Lieberman: no, non credo che Lieberman sia figlio dell’Intifada. Credo sia piuttosto il prodotto dell’uso (in parte necessario, ma in parte molto cinico) che Israele ha fatto in passato delle colonie e dei coloni. Li hano sfruttati come testa di ponte, come “utili idioti” (perdona l’espressione, la uso solo per capirsi), che adesso però presentano il conto per i tanti anni passati in prima linea.
    Quanto al Sinodo: bisogna attendere la conclusioni ufficiali per capire bene com’è andata. Dire che non rappresenta la Chiesa né il Vaticano, beh, è un po’ tanto. A meno che il Papa non l’abbia seguito o non abbia capito che cosa succedeva. La frase a cui il ministero di Lieberman si è strumentalmente attaccato, secondo me, non c’entra con la teologia ma con la politica. Nessuno chiede agli ebrei di rinunciare al concetto di “Terra Promessa” ma solo di non usare la teologia per giustificare la politica. Altrimenti c’è una sola conclusione: Israele deve andare dal mare all’Eufrate e i palestinesi devono essere cacciati. Credo che nemmeno la maggior parte degli israeliani la pensi così.
    Ciao, a presto

    Fulvio

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