ISRAELE E LIBANO, FRATELLI IN ECONOMIA

Buone notizie economiche da Israele. Tra 2008 e 2009 solo un paio di trimestri con il segno meno nelle statistiche del Prodotto interno lordo (Pil), poi solo crescita. Magari poco, ma quanto bastava per tenere il Paese saldo di fronte alla crisi mondiale. Al ritmo attuale, la crescita di Israele nel 2010 potrebbe essere del 4.4%, un dato che quasi tutti i Paesi dell’Occidente considererebbero trionfale. Ma buone notizie economiche anche dal Libano: nel 2008 è stato uno dei 7 Paesi al mondo con la Borsa in espansione (del 51%, poi), nel 2009 ha fatto il record di presenze turistiche degli ultimi trent’anni e ha prodotto un incremento del Pil del 7%.

Il panorama di Gerusalemme dal Monte degli Ulivi.

Il panorama di Gerusalemme dal Monte degli Ulivi.

Cito insieme questi due Paesi, da almeno trent’anni nemici, perché se uno dà un’occhiata alle analisi degli esperti, scopre che la descrizione dello spirito nazionale dell’uno e dell’altro coincide perfettamente, almeno quando si parla di imprese e di sviluppo. La somiglianza è notevole già in taluni aspetti pratici. Per esempio le rimesse di denaro dall’estero, che portano forze fresche all’una come all’altra economia: oltre 1 miliardo di dollari nel 2009 per Israele, pari a 150 dollari per abitante (fonte Undp); quasi 6 miliardi di dollari per il Libano, pari a oltre 1.400 dollari l’anno per abitante (Undp). Oppure la quasi contemporanea apertura di credito delle istituzioni finanziarie, che hanno spostato Israele dall’indice dei “Paesi emergenti” e l’hanno messo tra quelli sviluppati, e hanno alzato il rating del sistema bancario del Libano da “stabile” a positivo”, concedendogli di conseguenza la patente di Paese sicuro dal punto di vista finanziario.

BancaLibanoMa non è tanto a questo che mi riferisco. Ho in mente, piuttosto, le caratteristiche generali, quelle che fanno economia, fanno Paese ma soprattutto fanno nazione. Per esempio, la capacità dello Stato di ritirarsi dai settori dove lo spirito dei privati è più attivo e di presidiare, invece, quelli in cui la mano pubblica è più necessaria. In Israele, liberalizzando il settore finanziario (risultato: gli investimenti pro capite in venture capital, cioè nel lancio di nuove imprese produttive, sono 2,5 volte più alti che negli Usa e 30 volte più che nell’Unione Europea) ma, al contrario,  presidiando saldamente il fronte dell’istruzione e dell’università, che consente tra l’altro allo Stato ebraico di trasferire al settore civile le conoscenze e le opportunità raggiunte con lo sviluppo della tecnologia militare. In Libano, aprendo le porte agli investimenti dall’estero ma tenendo ben saldi i controlli sul sistema bancario (anche con il varo di più stringenti leggi contro il riciclaggio di capitali), in modo da creare un ambiente rassicurante per gli investitori non libanesi.

E poi l’importanza del turismo (che non vuol dire solo qualità dei servizi ma anche sviluppo delle infrastrutture e senso dell’accoglienza) e del commercio (che implica capacità di dialogo e di contatto), per entrambi rivolto, a livello di export, soprattutto verso l’Europa. Decisiva, infine, l’inclinazione democratica dei due Paesi. Più marcata ovviamente in Israele, anche se la mancanza di una vera Costituzione e di una definizione dei confini ha il suo peso; più notevole in Libano, Paese perfettamente mediorientale ma composito (18 comunità religiose ufficialmente riconosciute) come nessun altro, certo molto di più dello Stato ebraico.

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Alla fin fine, dunque, questi due Paesi e questi due popoli che si detestano si somigliano molto nell’intimo, o almeno in una sfera decisiva della vita sociale com’è l’attività economica. E’ quello che ho sempre pensato nei miei viaggi. E’ il rimpianto che ho sempre avuto considerando quale effetto avrebbe potuto avere sull’intero Medio Oriente una striscia pacificata che dall’Egitto, attraverso appunto Israele e Libano, coinvolgesse la Siria e arrivasse alla Turchia.Quale effetto abbia avuto la situazione contraria, cioè la guerra, ce lo ha spiegato lo Strategic Foresight Group, un think tank con sede in India: il costo del conflitto in Medio oriente tra il 1991 e il 2010 sarebbe di 12 trilioni di dollari. Se nello stesso periodo ci fosse stata la pace, il solo Libano avrebbe oggi 100 miliardi in più in cassa e il Pil medio per libanese sarebbe di 11 mila dollari invece che di 5,600.

Veder tutto questo cambiare è un sogno impossibile? Può darsi. Ma se davvero crediamo che l’interesse economico muova tutto il peggio (dalle porcherie individuali alle guerre), allora dobbiamo anche credere che abbia almeno una parte anche nel buono.

Fulvio Scaglione

Mi chiamo Fulvio Scaglione, sono nato nel 1957, sono giornalista professionista dal 1983. Dal 2000 al 2016 sono stato vice-direttore del settimanale "Famiglia Cristiana", di cui nel 2010 ho anche varato l'edizione on-line. Sono stato corrispondente da Mosca, ho seguito la transizione della Russia e delle ex repubbliche sovietiche, poi l'Afghanistan, l'Iraq e i temi del Medio Oriente. Ho pubblicato i seguenti libri: "Bye Bye Baghdad" (Fratelli Frilli Editori, 2003) e "La Russia è tornata" (Boroli Editore, 2005), "I cristiani e il Medio Oriente" (Edizioni San Paolo, 2008), "Il patto con il diavolo" (Rizzoli 2017).

Un Commento;

  1. Enrico Usvelli said:

    Con la pace ci guadagnano un poco tutti, con la guerra ci guadagnano tanto in pochi ( e non è detto che abitino tutti nei Paesi coinvolti).
    Il problema è che quei pochi spesso sono in grado di far sì che ci sia guerra o pace.

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