GIU’ LE MANI DAI CADUTI DI NASSIRIYA

Se sapessi davvero usare le parole, riuscirei a dirvi quanto sia insopportabile l’idea che qualche imbecille si metta a imbrattare, ieri a Roma come in agosto a Torino, per qualunque ragione, il monumento ai caduti italiani di Nassiriya.  La base Maestrale dei carabinieri fu attaccata il 12 novembre 2003 da due attentatori suicidi a bordo di un camion cisterna imbottito di esplosivo. I colpi delle sentinelle lo fecero saltare e l’esplosione del camion innescò quella del deposito munizioni: morirono in 19, insieme con 9 iracheni.

 

I resti della base Maestrale di Nassiriya subito dopo l'attentato del 12 novembre 2003.

I resti della base Maestrale di Nassiriya subito dopo l'attentato del 12 novembre 2003.

      Era un mercoledì e io ero rientrato dall’Iraq il lunedì. Proprio in quella base avevo passato tre giorni appena prima dell’attentato, accompagnato, istruito e illuminato da quei carabinieri. Tra le tante immagini, ho nitidissima quella dei pasti alla mensa della base, un capannone con lunghi tavoli e i soliti discorsi degli italiani quando si ritrovano lontano da casa: chi parte, chi resta, per quanto ancora, che voglia di questo o di quello. Non voglio fare del reducismo, sarebbe ridicolo. Voglio però dire che trovai allora dei padri di famiglia in divisa che, senza tanta retorica, avevano un lavoro da fare e cercavano di farlo al meglio. Il che è un obiettivo dignitoso e minimo se preso qui, nell’Italia ormai abituata alla pace e al benessere. Ma enorme laggiù, in condizioni di assoluto disagio, dopo una guerra che veniva data per finita ed era appena iniziata, con scopi complicati e sistemi da inventare: addestrare le forze di polizia locali (e magari armarle, senza sapere bene da che parte stessero), contribuire al mantenimento dell’ordine pubblico, svolgere compiti di polizia militare, difendere il patrimonio monumentale e archeologico della provincia di Dhi Qar, quella in cui si trovano anche la città di Abramo e il famoso zigurrat.

       I nostri soldati erano amati dalla gente. Qualcuno poi disse che fu questo senso di fiducia il loro errore. In realtà, l’attacco contro la base fu un’operazione militare vera e propria, anche se condotta da uomini senza divisa: una simile potenza di fuoco (anche solo trovare un camion funzionante nell’Iraq devastato, riempirlo di preziosissimo carburante e di dinamite, nasconderlo per chissà quanti giorni, fargli attraversare la città fino alla base) e una simile azione non potevano essere preparate senza una struttura logistica degna di ben più di un gruppo di terroristi. Fu come essere attaccati da un esercito senza volto, quindi ancor più micidiale.

 

Il maresciallo luogotenente Enzo Fregosi con una bambina di Nassiriya.

Il maresciallo luogotenente Enzo Fregosi con una bambina di Nassiriya.

       Li avevo incontrati tutti, i nostri 19 caduti. Ma ho un ricordo particolare del maresciallo luogotenente Enzo Fregosi, un toscano dai grandi baffi che per un giorno intero mi accompagnò con la jeep nei capi archeologici del Nord della provincia di Dhi Qar. In quel deserto, le tombe millenarie si individuavano quasi a occhio nudo, una volta che Fregosi ti aveva dato la “dritta”. Figuriamoci quanto doveva essere difficile per i tombaroli iracheni, che di notte spogliavano le tombe di ori e oggetti che poi, un paio di settimane dopo, spuntavano sui banchi degli antiquari in Giordania. Fregosi e i suoi commilitoni dovevano controllare un territorio immenso: qualche risultato, nemmeno secondario, lo ottenevano ma sapevano che il grosso gli sfuggiva. E Fregosi, che aveva una lunghissima carriera nell’Arma, ne parlava come di uno sconfitta personale, gli dispiaceva come se l’iracheno fosse lui.

      Insomma, da Nassiriya mi sono riportato il ricordo di persone vive, di italiani normali che, proprio come capita spesso agli italiani normali, erano disponibili a fare del proprio meglio anche se circondati dal peggio. Sfregiare il loro ricordo, anche nella forma di un monumento, vuol dire sfregiare quanto di più decente c’è nella nostra gente. Ma non solo. In agosto sono stato un’altra volta in Iraq, a Baghdad. E lì, di nuovo, ho trovato i carabinieri a proteggermi e a darmi una mano. Uno di loro era arrivato a Nassiriya quello stesso 12 novembre, di rinforzo, a strage appena compiuto. Sfregiare la memoria dei caduti vuol dire anche sfregiare lo sforzo dei loro compagni e degli altri soldati impegnati in giro per il mondo.

Fulvio Scaglione

Mi chiamo Fulvio Scaglione, sono nato nel 1957, sono giornalista professionista dal 1983. Dal 2000 al 2016 sono stato vice-direttore del settimanale "Famiglia Cristiana", di cui nel 2010 ho anche varato l'edizione on-line. Sono stato corrispondente da Mosca, ho seguito la transizione della Russia e delle ex repubbliche sovietiche, poi l'Afghanistan, l'Iraq e i temi del Medio Oriente. Ho pubblicato i seguenti libri: "Bye Bye Baghdad" (Fratelli Frilli Editori, 2003) e "La Russia è tornata" (Boroli Editore, 2005), "I cristiani e il Medio Oriente" (Edizioni San Paolo, 2008), "Il patto con il diavolo" (Rizzoli 2017).

Un Commento;

  1. fabio cangiotti said:

    C’è poco da dire, i nostri soldati sono i veri pacifisti e, senza retorica alcuna, i migliori tra noi italiani. A loro e alle loro famiglie va riservato un pensiero speciale.

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