MARONI DICE “NO” ALL’ISLAM SUL SAGRATO? BENE. BISOGNA TENERLO NELLE MOSCHEE? ALLORA DOBBIAMO COSTRUIRLE

     Chi segue queste note sa che non ho stima né fiducia nelle politiche della Lega su immigrazione e ordine pubblico. Seguo però senza pregiudizio alcuno il dibattito che si è aperto dopo l’intervento del ministro Maroni e la sua direttiva ai prefetti per vietare cortei e manifestazioni davanti ai luoghi di culto e ai “siti sensibili” come ambasciate, caserme e centri commerciali (www.interno.it). Prendo anche atto del fatto che il ministro ha fatto esplicito riferimento a “fatti come quelli avvenuti davanti al Duomo di Milano”, cioè alla preghiera islamica che, sul sagrato del Duomo, il 3 gennaio segnò il culmine della protesta contro l’attacco di Israele alla Striscia di Gaza.

     Mi pare che la questione ci interessi tutti, più per la sua sostanza (politica, culturale, religiosa…) che per le norme che ora mirano a codificarla. Potrei far notare che in regime di legge bossi-Fini sull’immigrazione clandestina abbiamo avuto il record assoluto di immigrati clandestini. E magari sottolineare che non passa settimana senza un nuovo provvedimento sull’ordine pubblico, il che evidentemente conferma che la situazione dell’ordine pubblico non è in miglioramento. Ma, ripeto, non è questo.

    I fatti di Milano (due volte, perché successe la stessa cosa anche il 5 gennaio) ma anche di Roma (il 17 gennaio) sono importanti perché per la prima volta gli immigrati di fede islamica hanno mostrato una confluenza (o confusione) di identità religiosa e identità politica. Non era mai successo e non a caso le manifestazioni “nostrane” mi sono state fatte subito notare da alcuni corrispondenti che ho in Israele. Significa qualcosa, nel mondo degli immigrati, questa prima volta? Francamente non so rispondere. Sono però piuttosto convinto che dovrebbe significare qualcosa per noi.

       Mi piacerebbe che questo processo si fermasse. In altre parole, mentre con la politica non possiamo farci niente (se sono ostili a Israele possiamo pensare che sbaglino, ma l’unica cosa da fare è pretendere che restino nei confini della legalità, come per ogni altra manifestazione ideologica), dovremmo fare ogni sforzo affinché la religione non diventi una bandiera identitaria e uno strumento di separatezza all’interno di una società che, bene o male, accomuna noi italiani, gli italiani di recente cittadinanza, gli immigrati regolari e gli immigrati regolari. Anche loro, certo: non perché l’irregolarità vada accettata, al contrario; ma perché solo un ipocrita può negare che molti di loro lavorano per noi che sappiamo benissimo della loro irregolarità e quindi in qualche modo partecipano della vita della società italiana.

      I musulmani in Italia sono, secondo la Caritas, 1,2 milioni. Dispongono di 250 luoghi di culto. Sembrano pochi ma facciamo bene i conti: secondo gli studi più seri (www.ismu.org), i musulmani “praticanti” e “frequentanti” sono circa il 20-25% del totale. In ogni caso si tratta di una comunità destinata a crescere, perché il loro tasso demografico è superiore al nostro e perché l’immigrazione stessa non è certo avviata a fermarsi (http://demo.istat.it/altridati/rilbilstra). Questo, secondo me, è il punto chiave. Il ministro Maroni ogni tanto sottolinea che molti dei “centri religiosi” islamici sono centri di non si sa bene cosa, più che di preghiera. Giusto, giustissimo intervenire: per fare chiarezza ed eventualmente chiudere quelli che hanno altri scopi, dal puro commercio all’intrigo. signor Ministro, per favore, lo faccia e non lo dica.

      Tutto questo, però, non elimina il puro e semplice fatto che questa gente ha, e ancor più avrà in futuro, il problema di avere luoghi atti alla preghiera. Per dirla tutta, oltre che il problema pure il diritto. Se continueremo a far pascolare maiali sui terreni che dovrebbero ospitare le moschee, come possiamo lamentarci se poi li troviamo sul sagrato del Duomo? E’ una battuta, ovviamente. Resto convinto che fosse straordinariamente intelligente l’idea dell’arcivescovo di Milano, cardinale Tettamanzi. In sintesi era: costruiamo una moschea in ogni quartiere. Ma il concetto era: se noi gli diamo dei luoghi acconci, e lo Stato controlla chi va a gestirli (dal punto di vista amministrativo e soprattutto religioso), non solo non li troviamo a pregare in piazza ma non li spingiamo a rivendicare l’identità religiosa come surrogato di un mancato riconoscimento umano.

    Pregare è un bisogno naturale dell’uomo, espresso da ogni società in ogni tempo. Esistono gli atei, rispettabilissimi, ma non sono mai esistite società atee. Se ai musulmani immigrati in Italia neghiamo un luogo per pregare, facciamo implicitamente passare il messaggio che loro non sono né mai saranno di questa società. Nemmeno con la cittadinanza, nemmeno con i documenti in regola. Lo faremmo agli ebrei, ai buddisti, ai valdesi? Ovvio che no. Ci converrebbe, e molto, prendere l’iniziativa. Per trattenere i musulmani d’Italia all’interno delle normali dinamiche sociali e quindi trasmettere loro un modello laico dello Stato. Quello che non hanno mai conosciuto, e quindi nemmeno apprezzato, nei Paesi d’origine.

 

Fulvio Scaglione

Mi chiamo Fulvio Scaglione, sono nato nel 1957, sono giornalista professionista dal 1983. Dal 2000 al 2016 sono stato vice-direttore del settimanale "Famiglia Cristiana", di cui nel 2010 ho anche varato l'edizione on-line. Sono stato corrispondente da Mosca, ho seguito la transizione della Russia e delle ex repubbliche sovietiche, poi l'Afghanistan, l'Iraq e i temi del Medio Oriente. Ho pubblicato i seguenti libri: "Bye Bye Baghdad" (Fratelli Frilli Editori, 2003) e "La Russia è tornata" (Boroli Editore, 2005), "I cristiani e il Medio Oriente" (Edizioni San Paolo, 2008), "Il patto con il diavolo" (Rizzoli 2017).

Un Commento;

  1. fabio cangiotti said:

    L’elemento islamico crea inquietudini non del tutto campate in aria, anche dopo queste “preghiere”: ma te l’immagini un gruppo di 400 pellegrini che si mettono a recitare il Rosario davanti a una grande moschea in Oriente? Personalmente diffido: credo che ci metta in minoranza che il nostro sentire (religioso ma anche laico)risponde a una idea di alterità, il loro ahimè no.

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