Il governo israeliano di coalizione guidato da Naftali Bennett ha varato una sorta di “piano quinquennale”, con investimenti per 32 miliardi di shekel (pari ad oltre 8 miliardi e 600 milioni di euro), per risollevare la qualità della vita nei quartieri e nelle zone popolate dalla corposa minoranza araba del Paese, che è circa un quinto della popolazione di Israele. Sono previste azioni nel settore della casa e della scuola e un piano per fornire più occasioni di lavoro e di impiego. Non manca, inoltre, un’attenzione specifica all’ondata criminosa che da tempo investe i contesti arabi. Nel 2020, secondo i dati dell’Abraham Initiative Group, sono stati uccisi 97 arabi israeliani, più del doppio delle vittime ebraiche di atti di violenza. Nel 2021 sono già 60 le vittime di morte violenta in questo gruppo specifico della popolazione. Con quel che ne consegue: la parte araba della popolazione accusa la polizia di lassismo e discriminazione, la polizia ribatte accusando gli arabi di non collaborare e di rispondere più alle regole dell’omertà che alle esigenze della legge.
Il progetto del Governo dovrà superare lo scrutinio e il voto della Knesset e si sa che gli umori e le fragili maggioranze del Parlamento israeliano costituiscono spesso un ostacolo assai arduo. L’iniziativa di Bennett resta ugualmente encomiabile. Per almeno due ragioni. La prima è che la comunità degli arabi israeliani è stata a lungo negletta e trattata come una popolazione di serie B. Le attenzioni dei pianificatori, gli investimenti statali e comunali, i progetti di sviluppo sono quasi sempre andati a beneficio delle aree abitate dagli ebrei, quando non agli insediamenti nei Territori occupati. Chi volesse approfondire certi collaudati meccanismi discriminatori non deve far altro che consultare l’ottimo libro di Meir Margalit, Gerusalemme, la città impossibile, pubblicato due anni fa dalle Edizioni Terra Santa. Il risultato, com’è ovvio, è stato un crescendo della tensione presso una comunità, quella degli arabi israeliani, che solidarizza con i fratelli palestinesi, ma nel concreto non chiede altro che potersi pienamente inserire nella società israeliana, di cui ovviamente apprezza anche le opportunità. Spianare questa strada, oltre a un atto dovuto, è anche un segno di intelligenza politica da parte del governo dello Stato ebraico.
C’è poi una seconda ragione. Il piano arriva, non a caso, da una maggioranza di governo di cui fa parte anche Ra’am, il partito guidato da Mansour Abbas che ha rotto il fronte con gli altri partiti arabi proprio nella speranza, realizzata, di entrare in qualche modo nella stanza dei bottoni. Ra’am, con i suoi quattro deputati, garantisce alla coalizione di Bennett la pur risicata maggioranza di 61 voti alla Knesset. E per la prima volta dal 1948 ha portato una formazione arabo-israeliana in una maggioranza di governo. Alla luce di tutto questo, un cambiamento positivo nell’atteggiamento verso le comunità degli arabi israeliani potrebbe avere un impatto politico notevole. In altre parole, potrebbe convincere quel non trascurabile 20% della popolazione che si può lavorare nelle (e non solo contro, come spesso è avvenuto) istituzioni e cavarne qualcosa di buono. Che anche da posizioni di minoranza si può fare politica. In una società palestinese fin troppo incline all’avventurismo, e in una israeliana fin tropo incline alla discriminazione, sarebbe una gran cosa.