DEMOCRAZIA DA EXPORT: ANCORA CI CREDETE?

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Il furore ideologico spesso acceca. E questo è successo anche a un osservatore di solito composto come Galli Della Loggia, che due giorni fa, sul Corriere della Sera, ha lanciato un’invettiva contro coloro che osano dubitare dell’efficacia e dell’utilità della strategia della “esportazione della democrazia”. Due vogliono essere gli argomenti “forti” dell’editoriale. Il primo è che contro l’esportazione della democrazia si pronunciano “non gli eventuali diretti interessati” ma “quelli che comandano e dirigono e che hanno tutto l’interesse a continuare a farlo indisturbati”. Primo errore. Di certo gli afghani che sono morti nel tentativo di imbarcarsi sugli aerei in partenza da Kabul, o le donne che ora temono di dover tornare al medioevo del burqa, non avrebbero esitazioni nel chiedere che i principi e i valori della civiltà occidentale vengano “esportati” anche da loro. Purtroppo, per restare all’Afghanistan, ci sono anche molti afghani che si pronunciano in senso contrario. Per esempio i soldati semplici delle milizie talebane, disposti a uccidere e a morire. O i contadini che vogliono continuare a coltivare il papavero da oppio, che poi diventa droga da smerciare in Occidente. Spero che Galli Della Loggia non creda che tutti loro siano da annoverare tra coloro “che comandano e dirigono”.

Come non lo erano le migliaia di militanti corsi ad arruolarsi nei ranghi di Al Qaeda o dell’Isis. O i milioni di Fratelli Musulmani che portarono Al Morsi alla presidenza dell’Egitto, per non parlare di quegli altri egiziani che furono ben felici di sbarazzarsi di lui applaudendo il golpe del poco democratico Al-Sisi. Per non parlare, volendo vedere la questione da un punto di vista forse meno drammatico ma non meno sostanziale, dei russi che appoggiano Putin o dei turchi che sostengono Erdogan. Il loro parere, il loro voto, le loro azioni non pesano? O contano meno perché non vanno nella direzione da noi auspicata? E non è proprio questo atteggiamento (valutare solo quelli che stanno con noi, e pensare che gli altri non esistano o non valgano nulla) una delle ragioni per cui le recenti esportazioni di democrazia si sono rivelate disastri epocali?

E poi. È vero che nessuno può decidere, in assoluto, che esportare la democrazia non ha senso. Ma in concreto, chi è che decide invece che ha senso, e dove e quando bisogna esportarla? Perché nessuno ha mai deciso di esportarla in Arabia Saudita, Paese fomentatore e sostenitore del terrorismo se ce n’è uno? Perché era invece necessario farlo in Iraq o in Libia? Chi l’ha detto che quello era il luogo e il momento giusto? Non pare molto democratico il processo con cui si decide di elargire la democrazia a chi non ce l’ha…

Il secondo punto clamorosamente debole dell’editoriale è l’artificio retorico con cui Galli della Loggia equipara la critica all’esportazione della democrazia come la conosciamo (ovvero, regime change con le bombe e nation building con l’occupazione militare) alla rinuncia a qualunque tentativo di incentivare la democratizzazione di altri Paesi. L’Occidente, almeno quello che si è coalizzato nella War on Terror dopo gli attentati alle Torri Gemelle del 2001 e si è insediato in Afghanistan, ha una potenza tecnologica ed economica tale che anche senza guerre potrebbe imporre moltissime cose a Paesi più deboli e arretrati. L’Egitto non racconta la verità su Regeni e non libera Zaki non perché non bombardiamo il Cairo ma perché continuiamo (Italia compresa) a concedere prestiti e vendere armi al suo Governo.

Detto così sembra semplicistico. Ma in realtà è meno complicato di quanto sembri. La Russia nel 2015, dopo che un volo Aeroflot fu fatto saltare con una bomba nei cieli del Sinai, impose un blocco ai voli verso l’Egitto. Una botta da 300 mila turisti russi al mese in meno. Un mese fa, quando Putin ha permesso di riprendere i voli, negli aeroporti egiziani i turisti russi erano accolti con la banda e i dolcetti. Se Europa e Usa bloccassero i voli verso le località turistiche egiziane, con il relativo colpo a uno dei settori trainanti dell’economia egiziana, dopo una settimana Zaki sarebbe a casa e gli assassini di Regeni in galera. Ed è solo uno dei mille possibili esempi.

La cosa peggiore, però, è il modo in cui Della Loggia chiude l’editoriale. Scrivendo che “una guerra del genere” (una guerra per la democrazia) “bisogna assolutamente vincerla, costi quel che costi”. Ecco, da qui si vede che ai nostri intellettuali farebbe bene qualche viaggetto in più nei luoghi di cui parlano. Parlando di “costi”, forse all’editorialista sfugge che le ultime “esportazioni della democrazia” hanno causato centinaia di migliaia di morti, in gran parte tra civili innocenti. Così tanti che per far prima abbiamo smesso di contarli. Hanno bruciato risorse enormi (tra Iraq e Afghanistan, 6 mila miliardi di dollari dai soli Usa) con cui avremmo potuto intraprendere azioni assai meno dolorose e più efficaci per la promozione dei valori democratici nel mondo. Hanno aperti varchi enorme al terrorismo internazionale, che dal 2001 (Torri Gemelle, proclamazione della War on Terror, invasione dell’Afghanistan e poi dell’Iraq) non ha fatto che crescere in termini di attentati e di morti, per cominciare a decrescere solo nel 2015-2016. E hanno radicalmente peggiorato la situazione i Paesi in cui si sono esercitate: Gheddafi o no, la Libia era il Paese più sviluppato dell’Africa e accoglieva migliaia e migliaia di migranti in cerca di lavoro; Assad o no, la Siria era un Paese autosufficiente, mentre ora vive di carità internazionale.

Quindi: che in teoria la democrazia possa essere esportata, e che in passato ciò sia successo, ha un’importanza solo teorica. Adesso, qui, sulla Terra, tra le persone in carne e ossa, non funziona, genera massacri e peggiora le cose. E certi ragionamenti rievocano la forma mentis degli ideologi vecchia maniera: se la realtà non corrisponde alla teoria, è la realtà che sbaglia, perché la teoria è sempre giusta.

Fulvio Scaglione

Mi chiamo Fulvio Scaglione, sono nato nel 1957, sono giornalista professionista dal 1983. Dal 2000 al 2016 sono stato vice-direttore del settimanale "Famiglia Cristiana", di cui nel 2010 ho anche varato l'edizione on-line. Sono stato corrispondente da Mosca, ho seguito la transizione della Russia e delle ex repubbliche sovietiche, poi l'Afghanistan, l'Iraq e i temi del Medio Oriente. Ho pubblicato i seguenti libri: "Bye Bye Baghdad" (Fratelli Frilli Editori, 2003) e "La Russia è tornata" (Boroli Editore, 2005), "I cristiani e il Medio Oriente" (Edizioni San Paolo, 2008), "Il patto con il diavolo" (Rizzoli 2017).

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