PARIGI E LONDRA ALLA GUERRA DEL PESCE

pesce
Severn e Tamar, Athos e Themis. Nomi che un giorno forse ritroveremo nelle note dei libri dedicati alla teoria d’Europa. Sono quelli delle navi militari che il Regno Unito (le prime due) e la Francia hanno mandato a pattugliare le acque intorno all’isola di Jersey, che è assai vicina alle coste francesi (14 miglia nautiche, circa 22 chilometri) ma, essendo una dependence del Regno, è difesa e rappresentata a livello internazionale dai britannici. Per spingere due Paesi europei, e due membri della Nato, a guardarsi così in cagnesco, vien da pensare che serva un contenzioso davvero importante. Si può quindi restare un poco delusi nell’apprendere che il tutto nasce dal pesce, da una disputa sui diritti di pesca, attività che per il Regno Unito rappresenta poco più dell’1% del Pil. Il che, passato il primo attimo di smarrimento, fa pensare che ci sia qualcosa sotto. Come in effetti è.

Intanto, siamo nella scia di quello scossone epocale chiamato Brexit. La questione della pesca è stata una delle ultime a venire sbrogliata. E come il problema del confine tra Irlanda del Nord e Repubblica d’Irlanda, molto male. In sostanza: gli inglesi volevano a tutti i costi riaffermare il controllo sulle proprie acque territoriali (quelle intorno a Jersey, nel caso) ma non potevano pretendere di bloccare attività consolidate, nello specifico quelle dei pescatori francesi. Il compromesso è stato: voi francesi potete ancora prendere il pesce da noi ma dimostrando che avevate una presenza «storica» in queste acque e sottostando a certe condizioni. Appunto. Le condizioni sono state enunciate pochi giorni fa, hanno previsto norme a sorpresa (limiti alla quantità del pesce tirato a bordo e ai tipi di reti da usare) e hanno prodotto questo effetto: 344 domande presentate, 41 accolte. Una beffa per i pescatori francesi, anche perché il tratto di Manica più pescoso, quello appunto di Jersey, è appena fuori dalle loro acque territoriali, che si estendono per 12 miglia dalla costa. Da qui la decisione di picchettare l’isola con le barche, cosa che ha spinto Downing Street a mandare le navi e l’Eliseo a rispondere con le sue.

Insomma, una rissa tra gente che lavora (i francesi hanno bisogno del mare inglese, ma quelli di Jersey hanno bisogno di vendere il loro pesce all’industria ittica francese) generata dagli accordi provvisori sulla Brexit che Ue e Regno Unito hanno prodotto dopo anni di inutili discussioni e prevedibili puntigli. Si troverà di certo una maniera di uscirne, magari pasticciando ancora un po’. Più in generale, però, la lite tra Londra e Parigi nasconde altre questioni. Il Regno Unito, e soprattutto il Governo guidato da Boris Johnson, hanno bisogno di ribadire l’irreversibilità del processo di abbandono della Ue, anche a costo di mostrarsi fin troppo intransigenti. In Scozia si vota per rinnovare il Parlamento e Nicola Sturgeon, la premier che guida lo Scottish national party, cerca una netta vittoria per ribadire il suo sogno: indipendenza da Londra e adesione alla Ue. Il Covid, però, ha cambiato molte carte in tavola: l’europeismo degli scozzesi è stato infiacchito dalla paura della pandemia. O per meglio dire: dalla paura che staccarsi dal Regno proprio adesso, dopo la straordinaria campagna vaccinale, significhi ripiombare nella crisi da virus. Così Johnson insiste, mostra i muscoli, cerca di trasmettere un messaggio di forza e fiducia nei mezzi del Paese.

Non è molto diversa la situazione di Emmanuel Macron. Con la differenza che, secondo tradizione patria, il presidente francese prova a rimontare lo scarso gradimento da destra come da sinistra (24%, facendo la media dei diversi sondaggi) atteggiandosi a condottiero. La sua marina, prima di salpare verso Jersey, si era già fatta vedere nel Mediterraneo, schierandosi al fianco della Grecia in opposizione alla Turchia. Ora replica in piccolo nella Manica davanti a Jersey. Con un’azione però che, come l’altra e forse anche di più, può portargli i voti di cui è già alla ricerca in vista delle elezioni presidenziali dell’anno prossimo.

Pubblicato sull’Eco di Bergamo del 7 maggio 2021

Fulvio Scaglione

Mi chiamo Fulvio Scaglione, sono nato nel 1957, sono giornalista professionista dal 1983. Dal 2000 al 2016 sono stato vice-direttore del settimanale "Famiglia Cristiana", di cui nel 2010 ho anche varato l'edizione on-line. Sono stato corrispondente da Mosca, ho seguito la transizione della Russia e delle ex repubbliche sovietiche, poi l'Afghanistan, l'Iraq e i temi del Medio Oriente. Ho pubblicato i seguenti libri: "Bye Bye Baghdad" (Fratelli Frilli Editori, 2003) e "La Russia è tornata" (Boroli Editore, 2005), "I cristiani e il Medio Oriente" (Edizioni San Paolo, 2008), "Il patto con il diavolo" (Rizzoli 2017).

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