MACRON TRA PANDEMIA E DEMOCRAZIA

macronEmmanuel Macron, presidente della Francia.
Anche se non l’ha ripetuta, anche se il tono era meno marziale, la frase « siamo in guerra » era implicita nell’ultimo discorso ai francesi che Emmanuel Macron ha pronunciato lunedì 13 aprile, a reti unificate, e che ha registrato un record assoluto d’ascolto: 36 milioni di telespettatori. Con un tono solenne, un’espressione seria,  aggrottata, il giovane Macron ha sfoderato accenti quasi
churchilliani per indicare ai suoi concittadini la strada da seguire. Non proprio sangue, sudore e lacrime ma quasi. Altre 4 settimane di quarantena, fino all’11 maggio, poi riapertura progressiva delle scuole (ma non delle Università) anche per  « permettere ai genitori di andare a lavorare ». Uso generalizzato delle mascherine (se e quando si troveranno, il che non è per ora il caso) e test su tutte le persone che manifestino sintomi. Bar e ristoranti, cinema e teatri chiusi almeno fino a metà luglio, così come le frontiere con i paesi extraeuropei. Festival (a cominciare da quello teatrale di Avignone) raduni e manifestazioni culturali annullati e rimandati a settembre o all’anno prossimo. Proseguimento del confinement per gli anziani in generale e per le persone più a rischio. Riapertura graduale, ma con molta cautela, delle imprese, dei cantieri, delle attività industriali. Aiuti statali alle famiglie più in difficoltà e ai settori più danneggiati dalla crisi in particolare turismo, ristorazione e cultura.

  La novità è che per la prima volta Macron ha ammesso pubblicamente che la pandemia ha colto la Francia impreparata, che il pericolo era stato sottovalutato, che c’erano stati errori e lacune, che si era tardato a reagire, che all’inizio le strutture (sanitarie e altre) non erano all’altezza. Non è stata proprio un’autocritica, ma conoscendo i francesi si può senz’altro dire che le ammissioni del Presidente non sono state roba da poco. Macron ha poi corretto il tiro elogiando il lavoro straordinario di medici e infermieri (i quali, ha però aggiunto, « non sono finora stati pagati in modo adeguato »)  e sottolineando la serietà e l’impegno con i quali la stragrande maggioranza dei cittadini ha affrontato il primo mese di confinement.
  C’è però un argomento sul quale molti speravano che il presidente si soffermasse ma che il discorso ha del tutto ignorato. Negli ambienti intellettuali, e anche in  seno a una parte della classe politica,  cresce la preoccupazione che la crisi innescata dal Covid – 19 fornisca al potere il pretesto per operare una svolta   «autoritaria», come sta già accadendo in Ungheria e in altri paesi dell’Europa orientale. In altre parole, si teme che le misure straordinarie e i decreti presi per far fronte all’emergenza sanitaria, finiscano per diventare permanenti. Come è già accaduto, in particolare in Francia, per alcune disposizioni decretate in fretta per affrontare la minaccia terroristica: disposizioni che avrebbero dovuto essere temporanee e che invece hanno finito per essere trasformate in legge.
  Di fronte all’arsenale di misure e decreti con i cui le autorità francesi tentano di bloccare la diffusione del coronavirus, sono molte le voci che si alzano per denunciare le minacce che si addensano sui diritti umani, sulle libertà fondamentali e più in generale sulla democrazia, senza che esista un solido argine di contropoteri.  Si capisce che questo tipo di dibattito, e di polemiche, trovi un fertile terreno in Francia.  E’ il Paese che con la Rivoluzione del 1789 ha regalato al mondo i diritti umani («les droits de l’homme») , ma al tempo stesso il Paese nel quale si parla moltissimo di République e pochissimo di Democrazia. E dove si fatica a comprendere che Repubblica e Democrazia non sono la stessa cosa: una repubblica può non essere democratica, una democrazia non è necessariamente repubblicana.
   Non c’è dunque da meravigliarsi che numerose voci si alzino per denunciare una politica che, seppur dettata dalla lodevole intenzione di opporsi con tutti i mezzi al dilagare dell’epidemia, rischia di rendere perenni, anziché temporanei, i principi di precauzione liberticidi. Un noto editorialista, Nicolas Baverez, ha scritto sul settimanale Le Point che «la pandemia del coronavirus costituisce un test implacabile per i dirigenti e per le istituzioni delle nazioni». E ancora : «La gestione della crisi è decisiva per domare l’epidemia, ma lascerà tracce profonde e durevoli. Il pericolo, in Francia, è che il fallimento della strategia sanitaria dello Stato causi un crack delle pubbliche libertà e renda ancora più fragile la democrazia».
  Certo, la Francia non è un caso unico. Basti pensare all’editoriale pubblicato recentemente sul New York Times, sotto il titolo «La democrazia americana potrebbe morire». L’autore, Paul Krugman, uno dei più autorevoli opinionisti statunitensi, cita l’esempio di Viktor Orban in Ungheria per denunciare la deriva autoritaria di Donald Trump e dell’amministrazione repubblicana, deriva che prende lo spunto dalla pandemia del coronavirus.  Coloro i quali denunciano i pericoli che si addensano sulla democrazia francese rimproverano a Emmanuel Macron la sua retorica. L’errore fondamentale, dicono, è stato quello di assimilare la lotta contro l’epidemia alla guerra, con il risultato che Macron può atteggiarsi a capo delle forze armate. Citiamo ancora Nicolas Baverez: «La guerra sanitaria è un concetto altrettanto falso e pericoloso quanto la guerra contro il terrorismo di George Bush, la guerra contro la droga del presidente filippino Rodrigo Duterte, o la guerra culturale del brasiliano Jair Bolsonaro. Il concetto è totalmente errato perché la battaglia è civile e non militare: l’obiettivo è curare la popolazione e non debellare le forze nemiche ».
  Anche sul piano economico, il concetto della guerra è un errore. Non si tratta di riorganizzare l’industria a scopo bellico, ma di assicurare la sopravvivenza delle imprese che garantiscono la crescita e l’impiego. Insomma, invece di militarizzare l’economia e tutta la società, occorre garantire la ripresa della vita normale il più presto possibile, senza per questo moltiplicare i controlli e limitare le libertà. In parole povere, di fronte alla pandemia del coronavirus, rispunta il dilemma di sempre, come di fronte al terrorismo: sicurezza o libertà? La risposta giusta è che il dilemma non ha senso e va categoricamente respinto.
   Oltretutto è disonesto tentare di far dimenticare l’imprevidenza e l’impreparazione dei politici e dei poteri pubblici decretando misure che intaccano la democrazia e minacciano lo stato di diritto. Rispettare la separazione di poteri, e le prerogative del Parlamento e della giustizia, non significa minacciare la sicurezza collettiva.
    Il caso della Francia e di Macron non può lasciare indifferenti gli italiani, visto che anche noi siamo esposti alle medesime minacce. A un presidente, Macron, che proclama la guerra, ha fatto eco, in marzo, il governatore della Campania Vincenzo De Luca, il quale ha affermato che era ora di smetterla con le mezze misure e che occorreva «militarizzare l’Italia».  Prese di posizione come quelle di De Luca mostrano quanto sia labile il confine tra libertà individuali e diritti umani da una parte, e salute o sicurezza pubblica dall’altro.
   Certo, la richiesta di maggiore protezione e sicurezza è più che giustificabile. Ma sarebbe opportuno che la paura (comprensibile) non sfociasse in un’incresciosa rinuncia, o quanto meno alla messa in quarantena dei diritti e delle libertà individuali. Insomma, bisognerebbe agire per evitare che il coronavirus porti a un’involuzione autoritaria della democrazia. Senza voler agitare lo spauracchio del modello orwelliano, bisogna pur ammettere che l’involuzione è già palese in uno stato membro dell’Unione europea, l’Ungheria, dove Viktor Oran si è accaparrato i pieni poteri  a tempo indeterminato.
  In effetti, la concentrazione dei poteri in una situazione di emergenza non è deprecabile in sé, ma quello che preoccupa è il «dopo». Come evitare che, una volta passata l’emergenza, le misure straordinarie restino in vigore? La tentazione di lasciare carta bianca a un potere, o peggio ancora a un uomo «forte» anche dopo la crisi, e nella fase della ricostruzione, può essere insidiosa e incoraggiare l’aspirazione ad affidare le sorti del paese a tale o talaltra personalità « provvidenziale ». Tanto più che una crisi come quella che stiamo vivendo ci ha portati a costatare, una volta di più, le lacune e i difetti delle organizzazioni internazionali.
   L’ONU e l’OMS si sono mostrate scarsamente efficaci. Neppure a farlo apposta, il virus partito dalla Cina (ossia da uno degli stati più autoritari che esistano) si è propagato nelle democrazie occidentali, e oltre alle disastrose conseguenze sul piano sanitario ha provocato una deriva verso modelli nazionalisti e autoritari. Con la conseguenza che i governi si sono attribuiti poteri più estesi, senza che le istituzioni democratiche o i cittadini abbiano potuto essere consultati e esprimere le loro opinioni.
   Il contagio, la quarantena, il confinement e la strage degli anziani stanno mettendo a dura prova le istituzioni delle democrazie occidentali. L’epidemia da coronavirus è una minaccia inedita, sconosciuta fino a ieri, e proprio per questo terrificante. L’emergenza è una sfida difficile: richiede decisioni drastiche e rapide. La tentazione di prendere scorciatoie pericolose diventa forte, e il fascino insidioso delle dittature si fa più attraente quando la situazione sembra sfuggire a ogni controllo.
Paolo Romani
Fulvio Scaglione

Mi chiamo Fulvio Scaglione, sono nato nel 1957, sono giornalista professionista dal 1983. Dal 2000 al 2016 sono stato vice-direttore del settimanale "Famiglia Cristiana", di cui nel 2010 ho anche varato l'edizione on-line. Sono stato corrispondente da Mosca, ho seguito la transizione della Russia e delle ex repubbliche sovietiche, poi l'Afghanistan, l'Iraq e i temi del Medio Oriente. Ho pubblicato i seguenti libri: "Bye Bye Baghdad" (Fratelli Frilli Editori, 2003) e "La Russia è tornata" (Boroli Editore, 2005), "I cristiani e il Medio Oriente" (Edizioni San Paolo, 2008), "Il patto con il diavolo" (Rizzoli 2017).

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