NOBEL ALLA TUNISIA, UN COLPO DI GENIO

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Gli illustri accademici scelti dal Parlamento norvegese, che a Oslo assegnano il premio Nobel per la Pace, ci hanno abituati alle sorprese. Tra Yasser Arafat e madre Teresa di Calcutta, passando per Barack Obama premiato per un discorso, si è visto tutto e (quasi) il contrario di tutto. Quest’anno però la sorpresa è stata lieta e il comitato, assegnando il riconoscimento al Quartetto per il dialogo nazionale in Tunisia, ha avuto un’idea non buona ma geniale.

Come ormai tutti sanno, il Quartetto è formato dal sindacato generale dei lavoratori (Unione Générale Tunisienne du Travail), dalla Confederazione dell’industria, del commercio e dell’artigianato (Unione tunisienne de l’Industrie, du Commerce e de l’Artisanat), dall’Ordine degli avvocati e dalla Lega tunisina per i diritti umani, un’alleanza che si è formata nel 2013 per favorire la pacificazione nazionale e la transizione alla democrazia. Basterebbero queste poche righe per darci tutta l’eccezionalità dell’evento. Intanto, il Nobel prosegue sulla strada del 2014, quando andò a Malala e all’attivista indiano per i diritti dei bambini Kailash Satyarthi, e riconosce il lavoro della società civile e dei suoi protagonisti spesso anonimi ma decisivi, uscendo dal recinto a volte discutibile della politica come da quello a volte ristretto delle grandi organizzazioni internazionali.

Un Nobel alla società civile

Ma non solo. Portare il Quartetto sotto le luci della ribalta del Nobel, significa anche invitare a un bilancio più meditato e moderato delle cosiddette Primavere arabe, innescate proprio in Tunisia, nel dicembre 2011, dal suicidio per protesta del giovane Mohamed Bouazizi. Seguirono le agitazioni in tutta l’Africa del Nord e poi in Medio Oriente, e in un anno la caduta di quattro autocrati come Ben Alì nella stessa Tunisia (gennaio 2011), Hosni Mubarak in Egitto (febbraio 2011), Muhammar Gheddafi in Libia (ucciso il 20 ottobre 2011) e Abdullah Saleh nello Yemen (febbraio 2012). Noi, europei e occidentali, pensando alle guerre e ai flussi di migranti, abbiamo concluso che le Primavere hanno peggiorato la situazione. Ma non ci siamo fermati a riflettere su che cos’abbiano significato per le popolazioni di quei Paesi, né su quanto abbiano influito certe nostre improvvide iniziative, anche armate.

Il Nobel per la pace al Quartetto ci invita anche a considerare quanto di buono è nato allora e potrebbe ancora nascere in futuro. Ed è questo, forse, l’aspetto più importante: ci mette all’ascolto di una foresta che cresce in un Medio Oriente fin troppo ricco, dalla Siria all’Iraq alla Palestina, di alberi che cadono. Soprattutto se consideriamo che più o meno nelle stesse ore, dalla Libia, arrivavano altri germi di speranza: dopo mesi e mesi di trattative, sembra raggiunto un accordo per un Governo di unità nazionale che metta fine alla battaglia tra le fazioni e accompagni il Paese alle elezioni. Intesa fragilissima ma pur sempre un’intesa, nel Paese dove l’interventismo di Gran Bretagna, Francia, Usa e anche Italia ha contribuito, nel 2011, a distruggere un vecchio equilibrio senza neppure accennare a un nuovo assetto.

Bernardino Leon, l’inviato speciale dell’Onu in Libia, che ha mediato tra le parti, ha chiesto “il sostegno della comunità internazionale”. E’ giusto, anzi, doveroso, visto i disastri che la stessa comunità ha combinato da quelle parti. Altrettanto giusto sarebbe rivolgere lo stesso appello in favore della Tunisia oggi onorata dal Nobel, Paese dove in modo democratico è stata approvata la nuova Costituzione e si sono svolte due elezioni politiche, dove il partito islamista Ennahdha ha sciolto il proprio Governo ammettendo di non saper affrontare la crisi economica e ha accettato di esser poi superato al voto da una coalizione di partiti laici, dove è stato trovato un equilibrio accettabile tra la prevalente fede islamica e la laicità dello Stato. Sfilando il Paese dalla morsa di quella che, laggiù, pare una scelta obbligata e a cui l’Isis ha tentato di riportarlo: o dittatura o disordini e guerra.

La Tunisia, oggi, è il fiore più colorato e vitale nel deserto umano e politico del Medio Oriente. Ed è bello che ad accorgersene, anche per conto di tutti noi che non avremmo previsto questo premio, siano stati i signori del Nobel dal Paese del freddo e dei ghiacci.

Pubblicato su Avvenire del 10 settembre 2015

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Fulvio Scaglione

Mi chiamo Fulvio Scaglione, sono nato nel 1957, sono giornalista professionista dal 1983. Dal 2000 al 2016 sono stato vice-direttore del settimanale "Famiglia Cristiana", di cui nel 2010 ho anche varato l'edizione on-line. Sono stato corrispondente da Mosca, ho seguito la transizione della Russia e delle ex repubbliche sovietiche, poi l'Afghanistan, l'Iraq e i temi del Medio Oriente. Ho pubblicato i seguenti libri: "Bye Bye Baghdad" (Fratelli Frilli Editori, 2003) e "La Russia è tornata" (Boroli Editore, 2005), "I cristiani e il Medio Oriente" (Edizioni San Paolo, 2008), "Il patto con il diavolo" (Rizzoli 2017).

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