DI MARTA FRANCESCHINI – Tra fumi d’incenso e canti sacri accompagnati da tamburi e campanelli, si è svolto a Delhi il primo convegno globale dei buddisti di tutto il mondo. Rappresentanti di 46 paesi si sono raccolti intorno al Dalai Lama che, nella cerimonia di chiusura, ha piantato in un parco della capitale un pipal tree, albero simbolico sotto il quale il Buddha raggiunse l’illuminazione 2.600 anni fa, proprio in India. E che, nel VI secolo fu sradicato e distrutto dal Re Sasanka del Bengala, convinto e feroce anti-buddhista.
Dal convegno è emerso un messaggio forte e chiaro: il Buddhismo è deciso a organizzarsi globalmente, e a fare dell’India il centro di questa unità. “E’ l’India, la terra del Buddha, l’unico Paese che può prendere la leadership del mondo buddhista”, spiega Lama Lobsang, capo della missione cha ha organizzato il convegno.
Ma non tutti condividono con lo stesso entusiamo il nuovo progetto religioso. Il Governo cinese, per esempio, è stato talmente infastidito dall’evento, da creare una crisi diplomatica che potrebbe sfociare in breve tempo in una vera e propria guerra fredda. I rapporti tra India e Cina, infatti, sono tesi su molti fronti.
La rivalità geopolitica dei due giganti asiatici corre innanzitutto sui 4057 km di frontiera, in molti punti tuttora incerti e conflittuali. Lungo il confine, un totale di 135.000 chilometri quadrati di terra indiana sono occupati irregolarmente dalle forze cinesi, che hanno in corso dispute di frontiera con altri 11 confinanti. Anche le acque del Mar della Cina sono contese dai due rivali ma, nonostante 30 anni di trattative, il raggiungimento di un accordo sembra ancora lontano.
Sul piano economico, la rivalità vede le due potenze rincorrersi col fiato corto per la supremazia sul mercato mondiale. Infine, sul versante religioso, l’occupazione del Tibet da parte della Cina, e il conseguente esilio del Dalai Lama in India, rappresentano gli estremi opposti di una crisi che ha avuto e continua ad avere ripercussioni globali.
La Cina, con oltre 100 milioni di buddhisti, ha cercato invano negli ultimi cinquant’anni di ottenere il ruolo di leadership del mondo buddhista. Per esempio, sequestrando il Panchem Lama, secondo capo spirituale del Tibet, e nominando un suo successore scelto dai quadri di partito. Oppure, investendo miliardi di dollari nella ristrutturazione di Lumbini, in Nepal, villaggio natale del Buddha, con l’intenzione di trasformarlo in una Mecca buddhista. Inoltre, Pechino ha molto a cuore la nomina del futuro Dalai Lama, sul quale vorrebbe poter esercitare il proprio controllo.
Ma, nonostante tutti questi sforzi, il genocidio politico e culturale perpetuato dalle forze cinesi in Tibet ha reso assai poco credibile la posizione cinese come leader religioso della fede buddhista.
di Marta Franceschini