MAGHREB, PER ORA CI GUADAGNANO GLI USA

I paragoni storici patiscono spesso l’emotività di chi li fa. Ma la fine di Muhammar Gheddafi somiglia sinistramente, almeno nella scenografia, a quella di Hitler: il bunker, le arringhe agli ultimi fedelissimi, le promesse di improbabili armi letali, la corte che arraffa e prepara la fuga o si dispone alla morte. Un Gotterdammerung delle sabbie, maghrebino ma non meno crudele e spietato.

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La crisi libica, improvvisa e violenta, ha risucchiato su di sé le tensioni della regione e l’attenzione internazionale. Ma è già ora di pensare al dopo, ai legami da stringere con una vasta porzione del mondo islamico, sconvolta da uno tsunami di volontà popolare quale nessuno era stato in gradi di prevedere. L’Europa è stata colta di sorpresa. L’Unione Europea governata dal Partito popolare europeo e influenzata dai movimenti euroscettici è riuscita ad esprimere solo un vago timore per eventuali ondate di profughi, lasciando per intero all’Italia (ovvero, alla sezione italiana dello stesso Partito popolare europeo e degli stessi movimenti euroscettici) l’onere dell’eventuale accoglienza.

Mentre la Libia bruciava e l’Europa tremava, gli Stati Uniti si sono dati da fare. In Egitto hanno manovrato l’esercito (cui già prima versavano un miliardo e mezzo l’anno in aiuti militari) per scongiurare una finta transizione da Mubarak ai suoi consiglieri (come l’ex capo dei servizi segreti Suleiman), e ora collaborano al controllo della situazione. In Tunisia è già arrivato Jeffrey D. Feltman, sotto-segretario di Stato per il Vicino Oriente, e anche lì l’esercito ha assunto una funzione di “controllo” di un regime che si è liberato del dittatore Ben Alì ma non dei suoi uomini e che comunque deve ancora trovare una vera fisionomia.

La sponda Sud del Mediterraneo da qualche settimana è un po’ meno europea e un po’  più americana, questo è indubbio. Il che significa mettere un’opzione pesante sul traffico energetico che passa per il Canale di Suez (Egitto), sui gasdotti che corrono in Tunisia, sul petrolio della Libia (il maggior produttore africano), sullo smercio del gas algerino e, per conseguenza, sul mercato mondiale e sulla posizione in esso della Russia.

Jeffrey D. Feltman, inviato della Casa Bianca nel Maghreb.

Jeffrey D. Feltman, sotto-segretario di Stato e inviato della Casa Bianca nel Maghreb.

Ma sarà il caso della Libia, presa a tenaglia proprio tra Egitto e Tunisia, quello più spinoso da risolvere. Troppo povera di popolazione per non destare appetiti, troppo ricca di gas e petrolio per essere abbandonata a se stessa. E nessun interlocutore chiaro per il dopo Gheddafi. La sorte stessa del Paese è a rischio: la Cirenaica in questi giorni issa la vecchia bandiera della monarchia, il Fezzan risponde ai capi tribù, la Tripolitania è rimasta più fedele a Gheddafi, le tre regioni storiche del Paese potrebbero anche decidere per la separazione. L’abbiamo visto succedere poche settimane fa in Sudan, con un referendum benedetto dagli Usa che ha visto nascere nel Sud Sudan uno staterello petrolifero a cui molti già fanno la corte.

La grande lezione degli ultimi avvenimenti, però, è rivolta proprio a coloro che, nelle cancellerie o nei consigli di amministrazione, detengono le leve del potere economico. La globalizzazione agisce non solo per la finanza ma anche per le coscienze. Le spinte di queste settimane potranno anche essere riassorbite o annullate, ma le ragioni che le hanno generate continueranno, nel profondo, a lavorare. Un terzo della popolazione del Medio Oriente, cioè più di 100 milioni di persone, ha meno di 30 anni. Giovani che hanno fatto in media sei o sette anni di scuola più dei genitori, che sanno e possono comunicare col mondo, che assorbono gli stili di vita dei Paesi più aperti e sviluppati ma intanto sono martoriati dalla disoccupazione (in media tra loro è del 25%) e angariati dalla mancanza o scarsità di libertà.

E’ questo il problema a cui serve dare risposta. Il petrolio non scappa, il gas nemmeno. Ma i nervi delle popolazioni possono cedere, eccome. Che siano gli Usa, come pare, a trarre il maggiore profitto politico dalla crisi, o che siano Italia e Francia a riproporsi come primi interlocutori del Maghreb, la grande questione della democrazia altrui alle soglie di casa nostra non potrà più essere elusa. Non pare invece che ci si possa spettare molto dall’Europa dei Barroso, Von Rompuy e lady Ashton e di un Partito popolare europeo ormai castrato da una quota eccessiva di ormoni di destra.

Fulvio Scaglione

Mi chiamo Fulvio Scaglione, sono nato nel 1957, sono giornalista professionista dal 1983. Dal 2000 al 2016 sono stato vice-direttore del settimanale "Famiglia Cristiana", di cui nel 2010 ho anche varato l'edizione on-line. Sono stato corrispondente da Mosca, ho seguito la transizione della Russia e delle ex repubbliche sovietiche, poi l'Afghanistan, l'Iraq e i temi del Medio Oriente. Ho pubblicato i seguenti libri: "Bye Bye Baghdad" (Fratelli Frilli Editori, 2003) e "La Russia è tornata" (Boroli Editore, 2005), "I cristiani e il Medio Oriente" (Edizioni San Paolo, 2008), "Il patto con il diavolo" (Rizzoli 2017).

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