PER CHI SUONA LA GLOBALIZZAZIONE

Ora che i lavoratori di Fiat Mirafiori hanno votato, posso provare a esprimere alcune considerazioni che covo in petto da qualche tempo. Il referendum, in sé, si presta a giudizi difformi, che infatti sono puntualmente arrivati. Su una cosa sola non ci possono essere dubbi: il referendum è stato uno degli aggiustamenti del sistema produttivo italiano ai cambiamenti imposti dalla globalizzazione. Sergio Marchionne fa i suoi interessi (o, meglio, quelli della Fiat) ma da questo punto di vista ha ragione: non possiamo pensare di lavorare e produrre in maniera autonoma, slegata da come si lavora e si produce negli altri Paesi. Se altrove si lavora di più a condizioni meno favorevoli, presto o tardi dovremo rassegnarci: se vogliamo stare a galla, qualcosa di simile toccherà anche a noi.

Sergio Marchionne, amministratore delegato della Fiat.

Sergio Marchionne, amministratore delegato della Fiat e protagonista del rinnovamento dell'Azienda.

Non è nemmeno una cosa che possiamo accettare o rifiutare. La impongono i fatti, il progresso di Paesi che erano grossi e ora diventano sempre più potenti (Cina, India, Brasile), la dura realtà di un pianeta su cui lotta per farsi spazio un numero maggiore di protagonisti. Tocca a noi come tocca al Giappone (ormai superato dalla Cina in termini economici), agli Usa, a tutti. La premessa è indiscutibile. Le conclusioni che si debbono trarre, al contrario, mi paiono non discutibili ma discutibilissime.

Il mondo è cambiato e dobbiamo adattarci? Ok. Il lavoro sarà più duro e le condizioni peggiori. Ok. Ma come dobbiamo assorbire tutto ciò? E chi deve pagarne per primo le conseguenze? Qui le cose si fanno meno chiare e, anzi, cresce in me il sospetto che qualcuno ciurli nel manico. La globalizzazione, intanto. E’ pensabile accettare alcune condizioni che essa impone e rifiutarne altre, a piacimento? Anzi: considerarne alcune benedette e altre maledette? Per dire: praticare la delocalizzazione all’estero delle fabbriche italiane (in cerca di forza lavoro a costi inferiori) e insieme teorizzare la chiusura parziale delle nostre frontiere alle merci altrui? Questo accade da anni con la benedizione (anche dottrinaria) del ministro Tremonti, quello che voleva mettere i dazi alle merci cinesi. Ha senso? E ancora: è pensabile far arrivare merci da tutto il mondo e auspicare investimenti in Italia da qualunque Paese e nello stesso tempo praticare la chiusura delle frontiere e la difesa (in qualche caso, fino al ridicolo) delle identità locali? Possibile che ci vada bene il gas algerino e il petrolio libico o saudita ma non i musulmani? Che ci piaccia il 5% della Ferrari in mani arabe e ci scandalizzi la costruzione di una moschea a Milano o a Torino?

E poi: chi deve adattarsi alle nuove e più dure condizioni? In Italia sembra che il compito tocchi sempre ai soliti. Gli operai di Pomigliano e Mirafiori, ci spiega ogni giorno il ministro Sacconi, sono i primi (quindi non i soli o gli ultimi) a entrare nella nuova era delle relazioni industriali. Ma non gli avvocati, per dirne una, che dopo la caduta di Prodi e del suo Governo si sono battuti come pazzi per farsi ridare il “minimo garantito” nelle parcelle, nonostante che siano più numerosi in Italia che in qualunque altro Paese europeo. I lavoratori della scuola (31 mila contratti non rinnovati nel solo 2010) ma non gli impiegati statali, tra i quali la riduzione è stata minima, fisiologica: 1,38%. Altro adattamento squilibrato in Italia: i redditi fissi sono ingabbiati dall’imposizione fiscale più alta mai raggiunta nel nostro Paese, le professioni approfittano del livello di evasione fiscale più alto della storia repubblicana. I single sono, sempre per via fiscale, più protetti delle famiglie. I giovani pagano con il precariato il disastro del sistema pensionistico, il cui rattoppo richiede che gli anziani lascino più tardi il lavoro. E così via.

Se c’è una cosa che il referendum Fiat conferma, dunque, è che ad adattarsi sono sempre i soliti. Non credo, infatti, che gli operai e gli impiegati che hanno votato “sì” lo abbiano fatto perché ricattati da Marchionne. O meglio: hanno votato “sì” perché hanno capito che il ricatto, se c’è, supera anche Marchionne e lo coinvolge. E infatti il Nostro la quota di Chrysler l’ha comprata a credito, con i soldi dei Governi di Usa e Canada (l’ultimo prestito: 3 miliardi di dollari da Washington), da rimborsare entro il 2013. E le auto in Serbia le produce grazie ai finanziamenti del Governo di Belgrado (i costi dello stabilimento di Kragujevac, 50 milioni di euro di capitale iniziale, 150 milioni di contributi diretti, esenzioni fiscali sui profitti per 10 anni, 10 mila euro di sovvenzione statale per ogni nuovo assunto, una “zona franca” per l’indotto) e agli aiuti dell’Unione Europea. Anche lui si adatta alle nuove condizioni. L’unica differenza è che il suo adattamento, oltre al nostro, lo paghiamo noi.

Fulvio Scaglione

Mi chiamo Fulvio Scaglione, sono nato nel 1957, sono giornalista professionista dal 1983. Dal 2000 al 2016 sono stato vice-direttore del settimanale "Famiglia Cristiana", di cui nel 2010 ho anche varato l'edizione on-line. Sono stato corrispondente da Mosca, ho seguito la transizione della Russia e delle ex repubbliche sovietiche, poi l'Afghanistan, l'Iraq e i temi del Medio Oriente. Ho pubblicato i seguenti libri: "Bye Bye Baghdad" (Fratelli Frilli Editori, 2003) e "La Russia è tornata" (Boroli Editore, 2005), "I cristiani e il Medio Oriente" (Edizioni San Paolo, 2008), "Il patto con il diavolo" (Rizzoli 2017).

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