Anno 2005, summit del G8 nella località scozzese di Gleneagles. I Paesi più sviluppati promettono, per l’esultanza di Bono e di altre rock star, di portare l’aiuto ai Paesi poveri allo 0,56% del Prodotto interno lordo (Pil) entro il 2010 e allo 0,7% entro il 2015. Risultato? La media dei Paesi europei è saldamente attestata allo 0,42%. A fronte di qualche eccezione (la Svezia è già oggi all’1,1% del Pil; la Danimarca sta riducendo gli aiuti ma è già oltre lo 0,7% (che sarebbe l’obiettivo fissato per il 2015), la Gran Bretagna è quasi allo 0,50% (cioè vicina all’obiettivo fissato per il 2010). L’Italia è sullo 0,17-0,18%, roba da vergognarsi.
Non per caso ho puntato l’attenzione sui Paesi dell’Unione Europea. La Ue da sola fornisce più del 50% degli aiuti allo sviluppo di tutto il mondo, avrebbe dunque qualche titolo per sentirsi meno insoddisfatta degli altri in un panorama generale tuttora agghiacciante: 1,5 miliardi di persone (metà delle quali nell’Africa subsahariana) soffrono la fame estrema e un altro miliardo di persone è sottonutrito.
Anche in Europa, però, e anzi soprattutto in Europa, è in corso un ripensamento generale della politica degli aiuti. Certo, dietro la riflessione può nascondersi anche il puro e semplice desiderio di risparmiare qualche soldo finché dura la crisi mondiale. Ma a parte il fatto che risparmiare più di così è ormai impossibile, si capisce che i Paesi donatori sentono il bisogno di criticare le vecchie politiche e di metterne in moto di nuove. In sintesi: basta con gli aiuti finanziari a pioggia e sforzi maggiori per legare gli investimenti ai risultati.
Un linguaggio così manageriale può suonare persino offensivo quando si parla di gente che muore di fame. Resta però il fatto che riempire il portafoglio di regimi autoritari o dittature ha salvato milioni di persone dalle emergenze (cosa che i critici radicali della politica degli aiuti, come Dambisa Moyo, non tengono abbastanza in conto) ma non ha salvato i popoli da un destino privo di prospettiva e di speranza. Una buona testimonianza del nuovo approccio è il libro verde della Commissione europea intitolato “La politica di sviluppo dell’Unione europea”.
L’idea che lo anima, chiaramente, è di tirare il freno alla strategia degli aiuti a pioggia elargiti ai Governi (con effetti, nel migliore dei casi, a breve termine) per incrementare, invece, la misura degli aiuti mirati con effetti a medio e lungo termine. Dal punto di vista finanziario, utilizzando lo strumento del sostegno a specifiche voci del bilancio pubblico dei Paesi bisognosi, in modo che l’aiuto arrivi direttamente ai settori critici e resti sotto l’occhio del pubblico. Dal punto di vista politico, promuovendo (il che, in molti casi, vuol dire pretendendo) una governance di stampo democratico e una sana gestione dei fondi, nazionali o internazionali. E’ scritto nel libro verde: “L’esperienza mostra che, in assenza di buon governo, i programmi di aiuti sono destinati a produrre effetti limitati e la cooperazione potrà difficilmente raggiungere un impatto elevato”. Un’ammissione onesta, un buon modo di ripartire.