Il “caso Teresa Lewis”, al netto delle opposte speculazioni (quelle di Ahmadinejad e quelle di chi della Lewis se ne frega ma vuol fare il brillante su Ahmadinejad), è la perfetta e per questo ancor più drammatica rappresentazione di ciò che davvero è la pena di morte oggi negli Usa. La Lewis, 41 anni, condannata a morte nel 2003, è stata giustiziata ieri notte con l’accusa di aver concepito e organizzato l’omicidio del marito e del figliastro, delitto poi compiuto dal suo amante (Matthew Shallenberger) e da un altro complice (Rodney Fuller). Del caso di Teresa (la dodicesima donna a essere giustiziata negli Usa) non è mai importato nulla a nessuno, a parte Amnesty International: né ai giornali né all’americano medio, che in realtà l’ha scoperta proprio grazie al detestato Ahmadinejad.
Perché? Perché se qualcuno se ne fosse interessato, avrebbe capito che il sistema è assurdo. La Lewis non aveva precedenti. E’ una disabile mentale che non poteva concepire piani di nessun tipo. Il suo amante, Shallenberger, confessò di considerarla “scema” e di averla sedotta per sfruttarla; confessione inutilizzabile ai fini processuali perché l’uomo si è suicidato nel 2006. La Lewis fu la prima a confessare, quindi a pentirsi. E’ stata però l’unica dei tre a essere condannata a morte. Eppure per due volte il governatore repubblicano della Virginia, Robert McDonnell, le ha negato la grazia (anche se nel suo Stato l’ultima donna fu giustiziata 92 anni fa) e altrettanto ha fatto ieri la Corte Suprema, nell’indifferenza del pubblico.
Questo è la pena di morte in America: nulla di paragonabile a quanto avviene in Iran, in Cina, in Arabia Saudita o in Iraq, certo, ma comunque una stupida abitudine a cui nessuno vuole rinunciare. Quelli che ne capiscono la stupidità non hanno il coraggio politico di opporsi. Gli altri non hanno l’intelligenza di accettare la realtà e si attaccano a un simbolo, la massima pena appunto, che è solo una parodia della giustizia. Tra gli Stati Usa che non applicano la pena di morte (18 su 52) c’è per esempio anche quello di New York, cioè la città che per il secondo anno consecutivo è risultata la più sicura d’America. Viceversa il Texas, che dal 1976 è lo Stato che ha eseguito il maggior numero di pene capitali (più di un terzo del totale), non ha alcun dato o statistica da vantare per dimostrare che tanta dovizia di crudeltà serva a tenere sotto controllo i criminali. Solo nel 2005, con la più risicate delle maggioranze (5 sì contro 4 no), la Corte Suprema dichiarò incostituzionale la messe a morte dei colpevoli minorenni all’epoca del crimine: questo in un Paese in cui gli incidenti stradali, il suicidio e l’omicidio venivano prima di qualsiasi causa naturale nelle morti dei giovani tra i 15 e i 19 anni d’età.
Non c’è, né negli Usa né altrove, un solo studio degno dell’aggettivo “scientifico” che possa dimostrare l’utilità della pena di morte nell’abbassare i livelli della pericolosità sociale. Al contrario, è proprio la situazione americana a rappresentare un caso da studio per dimostrarne l’inutilità e, anzi, la follia. I dati degli ultimi trent’anni dimostrano che negli Usa la pena di morte è applicata, in media, una volta ogni 700 omicidi, il delitto tipico che la prevede. E solo il 2,5% degli assassini viene condannato a morte. Con quelle percentuali, essere spediti sulla sedia elettrica o subire l’iniezione mortale è solo una questione di sfortuna, del giudice a cui capiti, magari anche del colore della pelle o dell’estrazione sociale. Tutto, insomma, e il contrario di tutto. Ma non giustizia.
Pubblicato sull’Eco di Bergamo del 24 settembre 2010