Quando la patria è in pericolo ci si rivolge ai veterani di mille battaglie. Così il calcio italiano, che riparte con le classiche (Inter-Roma, per esempio) ma non riesce a metabolizzare la batosta presa ai Mondiali del Sudafrica, si affida a Gianni Rivera, Arrigo Sacchi e Roberto Baggio. Tre fuoriclasse, nel loro genere, che di sicuro sanno una cosa: la battaglia è assai più culturale (e politica, in un certo senso) che tecnica o calcistica.
Il dato da cui partire, secondo me, sta nel numero 21: tante sono le società professionistiche escluse d’imperio o autoesclusesi dai campionati di competenza. In Italia le società calcistiche “pro” sono 132, quindi quelle sparite quest’anno sono più del 15% del totale. Realtà fino a pochi anni fa importanti (Perugia, Rimini, Mantova, Ancona), squadre dal blasone glorioso (Pro Vercelli, sette scudetti tra il 1908 e il 1922), un folto gruppo di copoluoghi di provincia (9) ormai senza calcio di livello. Non è un fenomeno isolato ma una tendenza: nel 2008 le squadre fatte sparire furono 9, tra esse Messina (serie B), Lucchese, Torres.
Altri numeri. I calciatori stranieri impegnati in Italia, nella stagione 2009-2010, sono stati 1.005, dei quali 611 professionisti e 394 “giovani” (non c’è limite per i ragazzi tra i 14 e i 19 anni provenienti dall’Unione Europea, mentre gli extracomunitari possono essere tesserati senza limite solo se mai tesserati prima). Nel 1995-1996, subito dopo la “sentenza Bosman”, erano stati 66. Nel calcio italiano una legge obbliga le società professionistiche a investire il 10% del bilancio nel settore giovanile. Molti sospettano che, semplicemente, non sia rispettata. Comunque sia, la quota dei calciatori cresciuti nei vivai nazionali e poi schierati in campo in Italia è del 12,8%, negli altri Paesi d’Europa del 21%.
Dove sta, dunque, la battaglia culturale? Interrompere o almeno frenare la deriva che da un ventennio circa spinge il calcio italiano verso il gigantismo, le spese senza ritorno, la dipendenza dalla Tv e dai regali di Stato tipo il “decreto spalma-debiti”. Un calcio che ha esasperato la divaricazione tra il vertice (di fatto pian piano ridotto a una sola grande squadra di livello internazionale, l’Inter, che peraltro è spesso scesa in campo con l’allenatore e 11 calciatori stranieri) e la base, tra chi può spendere miliardi e chi, nell’affanno di inseguire, mette a rischio fortune familiari (come i Sensi con la Roma) o cammina sull’orlo della bancarotta.
Un calcio, il nostro, che somiglia al Paese, in cui i privilegiati accrescono i privilegi mentre le famiglie normali tirano la cinghia a fine mese. Un calcio, quello europeo, che segue passo passo le peggiori abitudini della globalizzazione imperfetta: compriamo in Africa o in America Latina, e a poco prezzo, i talenti che non riusciamo più a far nascere o a produrre a un costo ragionevole.