Pare cosa da poco ma negli Usa lo status delle cheerleader ha scatenato una diatriba nazionale. Qualche mese fa otto Università hanno fondato la Ncsta (National Competitive Stunts and Tumbling Association), una specie di “lobby” con lo scopo dichiarato di far entrare il cheerleading tra gli sport di college, quelli ufficialmente riconosciuti dalla Ncaa (National Collegiate Athletic Association). Questione non da poco perché negli Usa lo sport di college muove quattrini, finanziamenti, borse di studio e così via. E le cheerleader, d’altra parte, non sono poche: 120 mila quelle ufficialmente registrate nelle scuole superiori, cifra che fa del cheerleading il nono “sport” più praticato a livello giovanile negli Usa.
Fin qui la bega era relativamente contenuta. Poi ci si è messa l’Università di Quinnipiac (nel Connecticut, a un’ora e mezza di auto da New York), che ha deciso di eliminare la squadra di pallavolo femminile e investire, al contrario, sulle cheerleaders. Quinnipiac, tra l’altro, è una delle otto Università che hanno fondato la Ncsta. Risultato: cinque giocatrici di pallavolo e il loro allenatore si sono rivolti al giudice, che alla fine ha sentenziato che “il cheerleading è ancora troppo poco sviluppato e troppo disorganizzato per essere uno sport”.