C’E’ PIU’ FEDE NEL BURQA O NEI PANTALONI?

Vorrei tornare sulla questione del burqa per chiarire un punto per me fondamentale. E decisivo, mi pare, per capire perché le multe tipo Novara (500 euro a una donna musulmana che portava il velo integrale in un edificio pubblico) sono sacrosante. Il punto è questo: il burqa non c’entra nulla con la fede, nemmeno con quella islamica. E’ solo un capo d’abbigliamento. Se vogliamo, tradizionale in una minuscola porzione del mondo islamico (in buona sostanza l’Afghanistan, più qualche minoranza sparsa: poche decine di milioni di persone su un miliardo di musulmani), ma in nessun modo significativo dal punto di vista religioso o spirituale.

Una donna musulmana con il velo.

Una donna musulmana con il velo.

Credo di avere una più che discreta biblioteca sull’islam, sulla sua storia e sulla sua cultura. Tra i testi, ho anche parecchi volumi di consultazione, italiani e stranieri, del tipo Vocabolario dell’islam o Dizionario dell’islam. Quasi nessuno di questi testi contiene la voce “burqa”. D’altra parte voi trovereste essenziale, in una storia del cristianesimo, la parola “pantaloni”? Eppure tutti, sacerdoti e spesso suore comprese, li portano. A differenza del burqa, che è portato da poche donne musulmane.

La ragione è semplice. Non c’è nulla, ma proprio nulla, nel Corano, che autorizzi a pensare che il burqa sia un prodotto del pensiero di Dio. E, se è per questo, nemmeno il chador o il niqab o lo hijab o uno qualunque degli abbigliamenti più diffusi tra le donne musulmane.

Nel Corano ci sono solo due riferimenti al velo o ai veli. Il primo è al versetto 31 della sura 24 (la Sura della Luce), laddove è scritto: “Dì inoltre alle credenti che abbasino i loro sguardi e siano costumate, né mostrino i loro ornamenti, eccetto quelli esterni, gettino i veli del capo sopra i loro seni e non mostrino i loro ornamenti se non ai loro mariti…”. Il secondo è al versetto 59 della sura 33 (la Sura dei Confederati): “O profeta, dì alle tue mogli, alle tue figlie e alle donne dei credenti che facciano scendere qualcosa del loro gilbab (un velo per coprire il capo, n.d.r) su di sé; questo sarà il modo più acconcio perché esse vengano riconosciute e non vengano offese da atti o parole sconvenienti”.

Il senso di questi ammonimenti (la traduzione è quella dell’edizione del Corano curata da Luigi Bonelli per la Hoepli) è piuttosto chiaro. Pudore, modestia, cura nel celare tutto ciò (i seni, per esempio) che poteva sembrare “provocatorio”. Le donne oneste dovevano coprire il capo e forse anche il volto soprattutto per essere riconosciute e distinte da concubine e donne di malaffare. E’ stupefacente che si dettassero norme di questo genere del Settimo secolo dopo Cristo? Crediamo forse che presso i cristiani o gli ebrei le donne, in quei tempi, andassero vestite diversamente?

Non c’è nulla, nei pochi versetti citati, che predichi, o peggio ancora imponga, l’uso del velo integrale o del burqa. Se qualcuno, dai tempi di Maometto a oggi, è riuscito a imporre il burqa alle donne, ha compiuto un’opera del tutto umana, terrena. Opera che, come tale, non può che confrontarsi, e nel caso andare soggetta, ad altre regole altrettanto umane. Per esempio alle leggi, che nel nostro Paese vietano (a livello nazionale, prima ancora che attraverso le ordinanze di questo o quel sindaco) di andare in giro a volto coperto.

Tutto il resto sono chiacchiere. Che purtroppo girano e rigirano e fanno danni. E’ incredibile, per esempio, che una donna tedesca sicuramente colta e intelligente come Aygul Ozkan, ex manager di Deutsche Telekom e ora anche ministro per gli Affari Sociali della Bassa Sassonia, abbia potuto paragonare il velo islamico al Crocifisso, dicendo di essere contraria all’uno e all’altro. Musulmana, la Ozkan fa torto anche alla propria religione paragonando un simbolo religioso a un capo di vestiario. Ennesima dimostrazione del fatto che è la politica (con le sue speculazioni) a portare la confusione nelle religioni, e non il contrariocome si è invece portati a credere.

Fulvio Scaglione

Mi chiamo Fulvio Scaglione, sono nato nel 1957, sono giornalista professionista dal 1983. Dal 2000 al 2016 sono stato vice-direttore del settimanale "Famiglia Cristiana", di cui nel 2010 ho anche varato l'edizione on-line. Sono stato corrispondente da Mosca, ho seguito la transizione della Russia e delle ex repubbliche sovietiche, poi l'Afghanistan, l'Iraq e i temi del Medio Oriente. Ho pubblicato i seguenti libri: "Bye Bye Baghdad" (Fratelli Frilli Editori, 2003) e "La Russia è tornata" (Boroli Editore, 2005), "I cristiani e il Medio Oriente" (Edizioni San Paolo, 2008), "Il patto con il diavolo" (Rizzoli 2017).

*

*

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

Top