L’arresto di Jafar Panahi, il regista iraniano che fu anche premiato alla Mostra del Cinema di Venezia (Leone d’Oro nel 2000 con “Il cerchio”) e di Berlino (Orso d’Argento nel 2006 con “Offside”) non è un clamoroso autogol del regime degli ayatollah ma nemmeno un segno della loro disperazione per le proteste seguite alla rielezione di Mahmud Ahmadinejad. E’, piuttosto, un segno di continuità nella ormai trentennale lotta che l’islamismo khomeinista conduce per affermarsi come unico interprete delle speranze e delle ambizioni della società dell’Iran.
Nel 1979, quando lo Shah appoggiato dall’Occidente fu cacciato dal proprio sfascio e dalla protesta popolare, noi credemmo di assistere a una rivoluzione islamica. Nella realtà, assistemmo a una rivoluzione spontanea e assai variegata (c’erano mercanti tradizionalisti dei bazar e intellettuali occidentalizzanti, marxisti e liberali, nazionalisti persiani e sinceri democratici) a cui si sovrappose, grazie a una maggiore organizzazione e a una più efficace simbologia, la rivoluzione khomeinista.
Il Grande Ayatollah ebbe un’intuizione tutta politica: in un Paese e in un popolo intriso di mistica sciita, solo il “lessico” sciita poteva ottenere un consenso davvero trasversale. E una mano davvero decisiva gliela diede la guerra contro l’Iraq, con la conseguente mobilitazione degli iraniani contro l’aggressore Saddam Hussein e, nemmeno troppo indirettamente, contro l’America che, da un certo punto in poi, lo appoggiò sempre più apertamente.
Da questo punto di vista, dunque, il riferimento storico più adeguato non è il fascismo o il nazismo, come si sente spesso dire, ma il comunismo russo: la Rivoluzione d’Ottobre fu l’usurpazione bolscevica di un movimento sociale rivoluzionario che aveva connotati assai meno radicali e autoritari di quelli che poi prese grazie a Lenin. Al quale, peraltro, Khomeini molto somiglia anche nel ruolo di teorizzatore, di sistematore teorico di un sistema (là il pensiero comunista, qui la giurisprudenza islamica) destinato a organizzarsi in forma di dittatura.
Tutto questo a che serve? Serve a ricordarsi che l’arresto di Panahi (come l’esilio dell’attrice Golshifteh Farahani o del regista Bahman Ghobadi,
della scrittrice Azar Nafisi o della fumettista Marjane Satrapi) è “solo” il più recente episodio (e non sarà certo l’ultimo) della guerra condotta dal regime per non perdere il monopolio della rappresentanza sociale. Che nei fatti, nello spirito della gente, ha già perso ma che con la violenza e le complicità può mantenere nell’economia, nel potere politico, nella forza militare.
Questa lotta sorda tra gli ayatollah che non tollerano altre voci e, appunto, tutte le altre voci ha avuto il suo passaggio più intenso, almeno finora, con la presidenza di Sayyed Mohammad Khatami, durata dal 1997 al 2005, cioè due mandati consecutivi. Khatami, votato soprattutto dai giovani (in Iran l’età media è 23 anni e mezzo), non era un islamista riformatore, come fin troppo spesso si è detto dalle nostre parti, ma un politico che voleva applicare il dettato della Costituzione e praticare la democrazia. Questo fatto, da solo, lo rendeva incompatibile con il monopolio politico tenacemente perseguito dagli ayatollah, che infatti mobilitarono tutto l’apparato clerical-burocratico costruito ai tempi di Khomeini per neutralizzare i suoi sforzi. Se Khatami abbia infine ceduto per mancanza di coraggio o perchè gli era impossibile agire, risulta tutto sommato ininfluente. Importa di più notare che uno dei suoi consiglieri anziani, all’epoca della presidenza, era quel Mir Hussein Moussavi che da giugno è l’uomo simbolo della protesta contro Ahmadinejad. Il politico che ha osato dire ad alta voce che la rivoluzione islamica ha fallito i suoi scopi. Appunto.