ITALIA NUCLEARE 4: A CACCIA DI URANIO

Come ho scritto ieri, sono debitore di un tentativo di risposta sulla questione del mercato dell’uranio. La domanda più o meno era: se oggi siamo in balìa dei fornitori di petrolio, domani non saremo allo stesso modo in balìa dei fornitori dell’uranio necessario per far marciare le centrali nucleari? Una prima risposta, immediata, che mi viene è questa: certo, se non hai il petrolio e non hai l’uranio, come succede all’Italia, dovrai sempre metterti sul mercato e comprarlo da chi ha l’uno o l’altro. Questo, però, è già un fattore di covenienza: i Paesi che hanno il petrolio non hanno l’uranio e viceversa (grosso modo, almeno). Comprare un po’ di petrolio dagli uni e un po’ di uranio dagli altri vorrebbe dire dipendere meno, politicamente, sia dagli uni sia dagli altri, e calmierare i prezzi dell’una come dell’altra materia prima. Se poi dessimo anche un po’ d’impulso al settore delle energie rinnovabili…

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     Questa è una prima considerazione. Proviamo però ad andare un po’ più nello specifico. Prima della grande crisi economica mondiale, come ricordiamo tutti, il prezzo del petrolio era rimasto alto per molto tempo. Aveva infine aveva battuto ogni record, arrivando a15o dollari a barile. Com’era logico attendersi, il rally del petrolio aveva incentivato la ricerca di nuovi giacimenti di uranio. La Nuclear Energy Agency (Nea) dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), di cui fa parte anche l’Italia, tiene d’occhio il mercato dell’uranio e pubblica i risultati in uno speciale rapporto che i tecnici chiamano Red Book (Libretto Rosso, chissà se era una battuta…).

      Il più recente dei Red Book racconta che le “risorse convenzionali” di uranio (si definisce così l’uranio che può essere estratto a un costo non superiore ai 130 dollari al chilo, quello ritenuto conveniente) oggi note ammontano a 5,5 milioni di tonnellate, cioè 2,2 milioni di tonnellate più di quelle censite nel 2005. Ci sono inoltre, secondo gli esperti, giacimenti di uranio non ancora scoperti che, a giudicare dalla caratteristiche geologiche dei giacimenti invece già portati alla luce e dalla diffusione di tali caratteristiche nelle diverse regioni del pianeta, dovrebbero contenere altri 10,5 milioni di tonnellate di uranio. E’ una stima da scienziati, ovvio, superiore comunque di 0,5 milioni di tonnellate a quella analoga del 2005.

      Tradotto in termini più abbordabili, corrisponde a questo. Nel 2006 erano 435 i reattori nucleari attivi nel mondo. Il funzionamento di questi reattori richiedeva 66.500 tonnellate di uranio l’anno. Le “risorse convenzionali” ne fornivano 39.603, pari a circa il 60% del totale richiesto. Il resto arrivava dalle cosiddette “risorse secondarie”, tipo rifiuti radioattivi trattati e riciclati o bombe atomiche smantellate. Con quel tipo di consumo di uranio, calcolava la Nea, le “risorse convenzionali” già inventariate (cioè senza quelle presunte ma ancora di identificare e localizzare) sarebbero bastate a far funzionare tutte le centrali nucleari del mondo per più di un secolo. Ovviamente ancor più a lungo (si parla anche di millenni) se dovessero entrare in funzione i reattori di quarta generazione o diavolerie ancor più avanzate.

     

La pubblicità di una società americana che fa prospezioni minerarie per l'uranio.

La pubblicità di una società americana che fa prospezioni minerarie per l'uranio.

      Tutto a posto, dunque? Per niente. Primo problema: il numero dei reattori nucleari funzionanti tende a crescere e si calcola che intorno al 2030 occorreranno tra 90 e 120.000 tonnellate l’anno di uranio per tenerle in attività. Secondo problema: le “risorse secondarie” si stanno rapidamente riducendo. Non ci saranno bombe atomiche da smontare in eterno, e per i rifiuti nucleari la tendenza mondiale è a interrarli, non a trattarli con procedimenti costosi e ancora pericolosi. Terzo problema: con il prezzo del petrolio alto (oltre i 100 dollaria barile) o altissimo (verso quota 150), molti Paesi avevano convenienza a investire per cercare nuove fonti di uranio. Nel 2006 la prospezione aveva assorbito, a livello mondiale investimenti per 774 milioni di dollari, il 250% rispetto al 2004. Ma con il petrolio tra i 70-80 dollari le cose cambiano e certo non a favore dei cercatori di uranio.

In conclusione: è vero, affidarsi totalmente a un settore nucleare così pesantemente condizionato dal mercato dell’uranio ci farebbe finire dalla padella nella brace, o comunque non ci lascerebbe più sicuri rispetto a quanto succede con il petrolio o con il gas. E viceversa. La risposta è: diversificare. Il nucleare serve come base per consumi di massa (anche politicamente, tagliare la bolletta elettrica alle famiglie non sarebbe un brutto risultato), il gas per i consumi industriali, le energie alternative (da potenziare, non quel poco di adesso) per integrare e per non farsi prendere per il collo da nessuno.

Fulvio Scaglione

Mi chiamo Fulvio Scaglione, sono nato nel 1957, sono giornalista professionista dal 1983. Dal 2000 al 2016 sono stato vice-direttore del settimanale "Famiglia Cristiana", di cui nel 2010 ho anche varato l'edizione on-line. Sono stato corrispondente da Mosca, ho seguito la transizione della Russia e delle ex repubbliche sovietiche, poi l'Afghanistan, l'Iraq e i temi del Medio Oriente. Ho pubblicato i seguenti libri: "Bye Bye Baghdad" (Fratelli Frilli Editori, 2003) e "La Russia è tornata" (Boroli Editore, 2005), "I cristiani e il Medio Oriente" (Edizioni San Paolo, 2008), "Il patto con il diavolo" (Rizzoli 2017).

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