L’ovvia conseguenza è che, mentre quelli che dovrebbero salvare l’umanità (in un senso o nell’altro) strillano, la gente comune, stanca e frastornata, si gira e prende a occuparsi d’altro. Ne avevo già parlato in occasione di approfondite ricerche americane, lo ribadisco ora che una ricerca italiana è giunta alle stesse conclusioni. Uno studio dell’Osservatorio Scienza e Società dimostra che la percentuale degli italiani convinti che il clima stia effettivamente cambiando è scesa dal 90% del 2007 al 71% del 2009. Lo stesso studio registra un altro dato significativo: solo il 13% (percentuale uniforme a quella del 2007) degli italiani giudica decisivo il ruolo delle organizzazioni ambientaliste nel costruire la percezione sociale del cambiamento climatico.
Nelle pur legittime ragioni dell’uno e dell’altro fronte a me pare di scorgere lo stesso errore: un fondamentalismo che tende a escludere per principio le ragioni dell’altro, e in ogni caso fa pochissimi sforzi per suggerire provvedimenti magari non definitivi e modesti però praticabili e utili. Per dire: ha senso che l’Unione Europea proponga di ridurre le emissioni di gas a effetto serra del 20% entro il 2020, sapendo in partenza che solo pochissimi Paesi potrebbero accollarsi le spese di riconversione dell’apparato industriale senza mettere a rischio la stabilità della propria economia? Al contrario, non ha molto senso negare tutto in base allo slogan “l’uomo è la soluzione, non il problema”: gran verità, ma quando la mattina sei fermo nella coda per entrare in città, avvolto dai fumi dei tubi di scappamento, ti rendi subito conto che l’impatto (positivo e negativo) dell’uomo sul pianeta è un po’ superiore a quello delle scimmie o dei criceti.
Proprio perché non credo che in fatto di protezione e conservazione del pianeta la scelta sia ristretta tra la palingenesi totale e il nulla assoluto, ho guardato con molto interesse a una ricerca un po’ strana, che in Italia non è per nulla circolato. S’intitola Cleantech – The Impact on Key Sectors in Europe (Tecnologia pulita – L’impatto sui settori chiave in Europa) ed è stato realizzata da Oxford Analityca per conto del CMS, un gigantesco studio (54 uffici e 4.600 dipendenti in tutta Europa ma anche in Algeria, Argentina, Brasile…) di consulenza legale per le industrie. La tesi è che la “tecnologia pulita” (cleantech, appunto) sta per trasformare in modo radicale il modo di produrre beni e servizi in quattro settori-chiave dell’economia dei Paesi sviluppati: costruzioni, agricoltura e gestione delle acque, trasporti, smaltimento dei rifiuti.
Il tema delle tecnologie ha un posto di rilievo anche nell’agenda della Conferenza di Copenhagen ma l’approccio di CMS è assai diverso. Forse per l’esperienza maturata con il mondo del business, l’accento qui è posto non sul “dovere” (dobbiamo fare così perché dobbiamo salvare il pianeta) o sulla “colpa” (abbiamo rovinato il pianeta, ora ci tocca ripararlo) ma sulla “convenienza”. Usare cleantech certo riduce l’inquinamento, fa risparmiare acqua e terra, ci aiuta ad avere abitazioni più sicure ed economiche, ma serve anche a produrre meglio, a guadagnare di più, a restare sul mercato. Perché la diffusione delle nuove tecnologie porta con sé l’aumento delle tecnologie pulite, in un processo di adeguamento dei sistemi produttivi che la crisi economica globale rallenta ma comunque non ferma. E chi non si adegua finirà per ritrovarsi superato dalla concorrenza.
E’ un approccio che trovo più convincente di qualunque predica, proprio perché il tema della salvaguardia dell’ambiente ha un alto tasso di valorialità e, purtroppo, di ideologizzazione. Sterilizzarlo con un’iniezione di interesse economico e di vil denaro può sembrare una cura da cavallo. Ma, come dicono a Roma, quanno ce vo’ ce vo’.