DAL WEB ALL’ACQUA MA SEMPRE ITALIANI

Il nostro meraviglioso Paese è davvero capace di tutto, nel bene e nel male. Per esempio, di discutere esattamente negli stessi giorni della cosiddetta “privatizzazione dell’acqua” e del blocco (o ritardo) alla diffusione della banda larga. Come dire che in Italia la gestione di un bene primario, anzi primitivo come l’acqua va di pari passo con la gestione di una risorsa iper-moderna e futuribile.


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    Questo dice molto di noi, e del nostro modo di vivere la cosa pubblica e l’interesse collettivo. Perché, a ben vedere, ci siamo politicamente scannati per l’acqua e non abbiamo fatto una piega per la distribuzione dell’accesso alla banda larga alle famiglie, cosa che nel resto d’Europa è considerata una condizione indispensabile allo sviluppo. Come se ci preoccupassimo nello stesso tempo di oliare le giunture dell’armatura e di comprare pile nuove per la radio. Siamo probabilmente gli unici al mondo, e certo gli unici in Europa, almeno in questa misura, che riescano a essere così incredibilmente avanti e indietro allo stesso tempo.

      Per la banda larga era in ballo il cosiddetto Piano Romani (dal nome del sottosegratrio alle Comunicazioni), cioè un piano per dotare, entro il 2012, almeno il 96% della popolazione di una connessione da 20 megabit. Un piano da 1,47 miliardi di euro, con uno stanziamento da 800 milioni previsto per i tempi brevi ma fermato in omaggio alla politica di rigore economico seguita dal Governo. Era un’idea non da poco, per tante ragioni. Intanto, in Italia un terzo delle aziende, il 10% dei Comuni (3.231) e quasi il 12% della popolazione (6,5 milioni di persone) non ha accesso alla linea veloce. Tutto questo significa rallentamento delle comunicazioni, cioè un freno allo sviluppo economico. Altrove le cose vanno ben diversamente: in Germania, il 75% delle case avrà la banda non larga ma larghissima (50-100 megabit) entro il 2014; a 4 milioni di case entro il 2012 in Francia, dove il governo sta investendo 10 miliardi di euro. La Finlandia, in questo campo sempre all’avanguardia, ha addirittura stabilito per legge che ognuno dei suoi 5,5 milioni di cittadini ha diritto ad avere a disposizione la banda larga entro il 2010. Non si pensi a Facebook, o al solito cazzeggio internettiano: l’Unione Europea valuta lo sviluppo delle connessioni veloci uno dei sistemi più efficaci per uscire dalla crisi e tornare a una fase di sviluppo. La banda larga, secondo gli esperti comunitari, “vale” 1 milione di posti di lavoro e 850 miliardi di crescita entro il 2015.

      E l’acqua? Qui si è scatenato il tipico costume italico di coprire qualunque problema di tali e tante pregiudizi ideologici da rendere di fatto impossibile al cittadino comune capire che cosa stia avvenendo. In realtà, a essere privatizzate non saranno le risorse (cioè l’acqua) ma i servizi, ovvero la gestione degli acquedotti. E’ un dramma? Per carità, questo è (anche) il Paese della corruzione e degli abusi, vigilare è d’obbligo. E’ già chiaro, inoltre, che le tariffe cresceranno, come sempre quando un servizio passa dalla gestione pubblica a quella privata. Ma è anche vero che gli acquedotti pubblici italiani sono dei colabrodo sprecarisorse (il 36% della nostra acqua si perde lungo i tubi), che le tariffe italiane sono le più basse d’Europa e che una famiglia media italiana spende meno di 20 euro al mese per l’acqua (dati Utilitatis) mentre ne mette più di 26 in tabacchi e quasi 60 in comunicazioni (leggi: telefonini). Molti ricordano che Olanda e Svizzera hanno leggi che vietano la “privatizzazione dell’acqua” e che in Francia decine di città sono tornate negli ultimi tempi alla gestione pubblica. Ma il livello delle tariffe non avrà nulla a che fare con questo? E poi: perché pochi citano l’esempio della Gran Bretagna, dove c’è una seria authority che vigila sulla gestione degli acquedotti privatizzati ai tempi della Thatcher?

      Morale. Di una risorsa moderna come Internet in Italia non di discute. Di una risorsa antica come l’acqua si discute in modo primitivo. Una via di mezzo no, eh?

Fulvio Scaglione

Mi chiamo Fulvio Scaglione, sono nato nel 1957, sono giornalista professionista dal 1983. Dal 2000 al 2016 sono stato vice-direttore del settimanale "Famiglia Cristiana", di cui nel 2010 ho anche varato l'edizione on-line. Sono stato corrispondente da Mosca, ho seguito la transizione della Russia e delle ex repubbliche sovietiche, poi l'Afghanistan, l'Iraq e i temi del Medio Oriente. Ho pubblicato i seguenti libri: "Bye Bye Baghdad" (Fratelli Frilli Editori, 2003) e "La Russia è tornata" (Boroli Editore, 2005), "I cristiani e il Medio Oriente" (Edizioni San Paolo, 2008), "Il patto con il diavolo" (Rizzoli 2017).

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