AMAURI, L’ITALIANO PER FORZA

Io sono tifoso del Torino. E anche se lui porta su di sé una colpa orrenda (ci ha fatto gol nel derby) spero vivamente che Amauri Carvalho de Oliveira, 29 anni, l’attaccante della Juventus da tutti chiamato solo Amauri, riceva presto il passaporto italiano, venga convocato da Marcello Lippi per la fase finale dei Mondiali di calcio in Sudafrica e, con i suoi gol, ci faccia vincere il secondo titolo consecutivo.

      

Amauri Carvalho de Oliveira. In Italia, dov'è arrivato nel 2001, ha giocato in Parma, Napoli, Piacenza, Empoli, Messina, Chievo e Palermo prima di approdare alla Juventus.

Amauri Carvalho de Oliveira. In Italia, dov'è arrivato nel 2001, ha giocato in Parma, Napoli, Piacenza, Empoli, Messina, Chievo e Palermo prima di approdare alla Juventus.

       Amauri ha chiesto la cittadinanza italiana secondo le regole, esercitando quindi un diritto. Anzi, con qualche giusta ragione per lamentarsi di una burocrazia non velocissima nello smaltire la pratica. Ma bisogna essere molto tifosi o molto miopi per non rendersi conto che lui con l’Italia ha una relazione così tenue da risultare, al di là dei documenti, quasi impalpabile. In poche parole: Amauri, brasiliano al cento per cento, diventerà cittadino italiano perché nel marzo scorso lo è diventata sua moglie Cynthia, nata a Rio de Janeiro ma con nonni italiani. Il calciatore, quindi, sarà italiano perché sposato a un’oriunda. Se poi andrà ai Mondiali, come ci auguriamo e come pare assai probabile, diventerà addirittura uno dei simboli dell’Italia sportiva e canterà l’inno nazionale.

      Il problema non è il “caso Amauri” ma il Paese che gli sta intorno. Un Paese che osserva compiaciuto la vicenda calcistica (con molti pronti a considerare un rompiscatole Giampaolo Pazzini, attaccante della Sampdoria, che si è permesso di far notare quanto detto sopra) senza nemmeno provare a collocarla in un quadro un po’ più ampio. A metterla in relazione con quanto succede agli altri stranieri, brasiliani e non. A inserirla tra le comuni notizie di ogni giorno. A confrontarla con gli asili e le scuole dove i genitori italiani chiedono classi separate per non mescolare i loro bambini a quelli degli immigrati, anche se questi (a differenza di Amauri) sono nati in Italia. Con i borghi dove i sindaci organizzano il Natale “bianco” o scavano un fossato largo un metro e lungo 200 per impedire la sosta dei camper dei rom.

      Con i grossi centri come Treviso e Trieste, che in passato hanno abolito le panchine dall’arredo urbano pur di impedire ai barboni di dormirci sopra. Con le metropoli come Milano, dove il Consiglio comunale assegna la massima onorificenza cittadina (l’Ambrogino d’Oro) ai vigili che rastrellavano i presunti clandestini senza biglietto e per i controlli li tenevano sui cosiddetti “bus galera” con le grate ai vetri: persone degnissime e probe, i vigili, ma un servizio di cui il Comune stesso a tal punto dubitava da averlo abolito in silenzio.

      Si potrebbe anche chiedere un parere sul “caso Amauri” al Governo, in particolare al ministro Bossi che propone di espellere gli immigrati (anche quelli regolari, parrebbe) in nome della scarsità di lavoro. Senza però spiegare se nei cantieri o a fare le pulizie ci andrebbero, al posto dei vituperati immigrati, i generosi ragazzi padani. O come si possa conciliare quella sua visione del mondo (e dell’economia, e della società) con quella degli industriali italiani, gente abituata a far di conto con soldi propri e non altrui, che attraverso Giampaolo Galli, direttore generale di Confindustria, hanno spiegato alla Camera che “la manodopera immigrata contribuisce alla creazione del 6,1% del valore aggiunto” e dunque l’immigrazione “deve essere affrontata non solo come un’emergenza ma anche come un’opportunità per il Paese”.

      La domanda è: che cosa sarebbe successo se Amauri fosse stato non un magnifico centravanti ma “solo” un grande panettiere? Uno splendido idraulico? Un muratore di genio? Ci mette in imbarazzo l’idea di un Paese che accoglie volentieri i grandi calciatori e le figliole che sanno accavallare le gambe in favore di telecamera ma diffida di tutti gli altri e spesso li tratta male, regolari o no. Senza capire che di calcio vivono in molti ma di pagnotte rubinetti e muri viviamo tutti.

Pubblicato su Famiglia Cristiana n. 48/2009

Fulvio Scaglione

Mi chiamo Fulvio Scaglione, sono nato nel 1957, sono giornalista professionista dal 1983. Dal 2000 al 2016 sono stato vice-direttore del settimanale "Famiglia Cristiana", di cui nel 2010 ho anche varato l'edizione on-line. Sono stato corrispondente da Mosca, ho seguito la transizione della Russia e delle ex repubbliche sovietiche, poi l'Afghanistan, l'Iraq e i temi del Medio Oriente. Ho pubblicato i seguenti libri: "Bye Bye Baghdad" (Fratelli Frilli Editori, 2003) e "La Russia è tornata" (Boroli Editore, 2005), "I cristiani e il Medio Oriente" (Edizioni San Paolo, 2008), "Il patto con il diavolo" (Rizzoli 2017).

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