Gli Stati Uniti, si sa, hanno sempre avuto il culto della mobilità, nel lavoro come in ogni altro settore della vita individuale e collettiva. E’ quindi particolarmente interessante che proprio negli Usa, il Paese che vive nel mito della “frontiera”, si stia sviluppando un’originale riflessione su mobilità del mercato del lavoro, precariato e rapporti tra le classi sociali.
Gli economisti Isabel V. Sawhill e Ron Haskins hanno elaborato alcune analisi nell’ambito del Progetto Mobilità Sociale della Brookings Institution, un pensatoio bipartisan di consolidata autorevolezza. Sawhill e Haskins partono da una considerazione di fondo che trovo impossibile non condividere: l’obiettivo fondamentale non è garantire a tutti un’uguale riuscita finale ma un’uguale opportunità di partenza. Perché, come ricordano citando un discorso di Ben Bernanke, presidente della Federal Reserve (l’equivalente Usa della Banca d’Italia), “… senza la possibilità di risultati diversi in base alla diversità degli sforzi e delle capacità, ogni incentivo economico perderebbe di valore e l’economia di mercato diventerebbe molto meno efficiente”.
Fin qui, tutto bene. Siamo, credo, tutti d’accordo. Come reagiscono, allora, i nostri confindustrialisti? Fanno proprio il contrario: al posto di valorizzare la diversità degli sforzi e delle capacità, cacciano tutti in una indistinta massa precaria, immobile e sempre uguale a se stessa. Gli americani, più seri e soprattutto più seriamente interessati alla mobilità e alla competizione sociale, vanno a vedere che cosa succede nella realtà quotidiana. Così Sawhill e Haskins scoprono alcuni fatti curiosi. Provo a farne un elenco.
1. Dove è più sviluppata la mobilità sociale? Fanno due conti e concludono che oggi, se nasci in Canada o nei Paesi del Nord Europa o in Gran Bretagna (cioè nei Paesi dove il welfare o “Stato sociale” è più sviluppato) hai molte più possibilità di migliorare la tua situazione sociale che se nasci negli Usa. In America, un bambino di oggi ha più o meno le stesse probabilità di salire o scendere la scala sociale arrivando all’età adulta se è nato in una famiglia della classe media. Può andar su o giù, alla pari. Se nasce in una famiglia benestante, invece, ha il 76% di possibilità di ritrovarsi adulto con un alto reddito. Ma se per caso nasce in una famiglia povera, ha il 65% di possibilità di essere povero anche da adulto.
2. Un fattore che provoca forte incremento della povertà è la diffusione delle famiglie con un solo genitore. Oggi, negli Usa, il 30% dei bambini nasce in famiglie cui manca un genitore (era il 12% nel 1968) e dove il tasso di povertà è cinque volte più alto che nelle famiglie “regolari”. Teniamo presenti, noi italiani, le conseguenze sulle famiglie del precariato lavorativo: i giovani si sposano di meno, sempre più numerose sono le convivenze, sempre più frequenti separazioni e divorzi.
3. Quali sono le condizioni che rendono più probabile la mobilità sociale, verso l’alto naturalmente? Gli economisti della Brookings Institution le indicano con precisione e senza tante capriole: avere una buona istruzione (minimo la scuola superiore, per gli Usa), avere una famiglia regolare e AVERE UN POSTO FISSO A TEMPO PIENO. In presenza di queste caratteristiche, le possibilità per l’individuo di essere povero anche da adulto calano dal 12% al 2%, e quelle di entrare nella classe media salgono dal 56% al 74%.
Ecco perché, come scrivevo nel primo post di questa serie di tre, pensare che il precariato sia un’espressione della modernità è da retrogradi.
(3.fine)