I diciotto anni di patriarcato di Alessio II offrono certo il destro a un bilancio ricco di sfumature. Nessuno però potrà negargli il merito, perché tale esso è per la sua Chiesa, di aver ricostruito un rapporto organico con il potere dello Stato fino a riportare la mole severa del monastero Donskoj (sede appunto del Patriarcato) nell’ombra stimolante e protettiva delle torri del Cremlino. Alessio II era diventato patriarca nel 1990, proprio mentre la Russia entrava in una serie di sconvolgimenti epocali. Anche la sua elezione era stata una specie di cataclisma: il suo più accreditato rivale, il metropolita Filaret, l’aveva in pratica accusato di brogli e poi se n’era tornato in Ucraina per provocare uno scisma e fondare, nel 1992, il Patriarcato di Kiev della Chiesa ortodossa d’Ucraina. In pieno marasma politico e religioso, Alessio II aveva cominciato a tessere con tenacia una tela non priva di visione. Sostenne Michail Gorbaciov, condannando il colpo di Stato del 1991. Lo stesso fece poi con Boris Eltsin, anche se questi era assai poco portato per le questioni di fede. Nel 1993, quando lo scontro tra il Parlamento e lo stesso Etsin era degenerato in guerra, il Patriarca aveva attraversato Mosca in processione per favorire una riconciliazione che, in quelle ore, interessava soprattutto al Cremlino.
Erano gli anni in cui la struttura della Chiesa ortodossa russa rischiava una disintegrazione simile a quella dell’Urss. In cui la battaglia per la restituzione dei beni sequestrati dal regime sovietico consigliava alla Chiesa un’intesa con lo Stato post-sovietico. In cui l’avanzata delle sette protestanti sembrava capace di erodere la base stessa della Chiesa ortodossa. Alessio II, però, non si muoveva solo in base alla necessità. A spingerlo era l’intera storia della Chiesa ortodossa russa, più volte ribadita anche in anni recenti. Si veda, per esempio, il testo del Concilio dei Vescovi del Duemila, che sottolinea il carattere dello Stato come “difesa dal male” e ridefinisce le “regole” della proficua collaborazione: “Poiché le relazioni tra Stato e Chiesa hanno carattere bilaterale, questa forma ideale storicamente ha potuto essere elaborata solo in uno Stato che riconosceva nella Chiesa ortodossa la massima realtà sacra popolare, in altre parole, in uno Stato ortodosso”.
Il Duemila è l’anno chiave. Fino ad allora, Alessio II si era trovato a “inseguire” leader poco sensibili o troppo impegnati a sopravvivere per pensare il rapporto Chiesa-Stato in modo strategico. Certo, Eltsin aveva firmato nel 1997 la “Legge sulla libertà di culto” che garantiva alla Chiesa ortodossa sensibili privilegi a scapito soprattutto dei cattolici. Ma era “solo” la gratitudine del politico che l’anno prima aveva incassato l’appoggio del Patriarcato nella corsa a una rielezione che pareva perduta in partenza.
Tutto cambia appunto nel Duemila. Nicola II, l’ultimo zar, e i suoi familiari sono canonizzati come “martiri consapevoli” (l’aggettivo è importante). La cattedrale di Cristo Salvatore (costruita in omaggio alla vittoria sui francesi del 1812, distrutta da Stalin nel 1930 e ricostruita nel decennio eltsiniano) è di nuovo consacrata. Soprattutto, arriva al potere Vladimir Putin. L’ex agente segreto, originario della San Pietroburgo di cui Alessio II era stato vescovo dal 1986 al 1990, era l’uomo perfetto per consolidare la relazione tra lo Stato (degli ortodossi) e la Chiesa (dello Stato), che da allora non è più stata discussa ma, semmai, esaltata. Dmitrij Medvedev, presidente da otto mesi, è un ortodosso praticante. Non è un’eredità da poco, quella che Alessio II lascia al suo ancora ignoto successore.
Pubblicato su Avvenire del 5 dicembre 2008 http://www.avvenire.it