USA E RUSSIA INSEGNANO: L’ECONOMIA GLOBALE PUNISCE CHI FA LA GUERRA

      Mentre il premier Vladimir Putin annunciava per il 2009 un incremento nelle spese militari del 27%, la Borsa di Mosca tentava di frenare il crollo sospendendo, per eccesso di ribasso, i principali indici azionari. Ancora qualche ora e lo stesso Putin provava a restituire fiducia ai mercati con un prestito di 44 miliardi di dollari a Sberbank, Vneshtorgbank e Gazprombank, i tre maggiori istituti bancari del Paese. Certo, pesa sulla Russia il calo del prezzo del petrolio, la recessione mondiale, la bufera che ha investito la finanza Usa. Ma pesa anche la crisi di fiducia che si è innescata con la guerra contro la Georgia, con la brusca frenata degli investimenti esteri e la fuga verso l’estero degli investitori interni.

      Dev’esserne conscio il presidente Dmitrij Medvedev se qualche giorno fa aveva detto: “Non scopriamo ora la nostra dipendenza dall’economia globale, tuttavia bisogna determinare delle priorità”. Come dire: sapevamo che la guerra ci sarebbe costata cara ma pensavamo ne valesse la pena. Ingenua o consapevole che fosse, la confessione di Medvedev andrebbe incisa nel bronzo e distribuita ai capi di Stato e di Governo, e magari a qualche candidato alla presidenza Usa, ancora inclini a credere che valga la pena di concedersi una guerra ogni tanto.

      La cosiddetta “economia globale”, pur con le sue distorsioni, potrebbe rivelarsi il più potente promotore del pacifismo. Della Russia abbiamo detto: non è un caso se l’unica a serrare i battenti, tra le tante Borse sconvolte dalla crisi, è stata proprio quella di Mosca. Ma pensiamo agli Usa. La doppia presidenza Bush, segnata dal forte impegno militare, ha stressato oltre misura le pur notevoli doti del sistema finanziario pubblico e privato, costretto a indebitarsi come mai prima. Il debito dello Stato americano oggi è pari al 70% del Prodotto interno lordo e corrisponde a una cifra quasi impossibile da leggere: 9.637.121.123.728 di dollari. Usa e Russia: premesse diverse, conseguenze identiche.

      L’economia globale, anche se non lo sa e forse nemmeno lo vuole, agisce però non solo “contro la guerra” ma anche “per la pace”. Per esempio in Cina. Negli ultimi quattro anni le acquisizioni di compagnie cinesi da parte di compagnie straniere hanno preso un  ritmo intenso, con il record stabilito qualche settimana fa dalla Coca Cola, che ha speso 2,5 miliardi di dollari per rilevare la Huiyuan Juice. Nello stesso tempo, cala in Cina la popolazione in età da lavoro e quindi si “asciuga” l’enorme bacino delle persone disposte a faticare per il classico piatto di riso. Cresce il costo del lavoro ma anche la coscienza dei lavoratori cinesi. In un simile contesto, quale peso può avere la presenza di grandi aziende occidentali per diffondere, anche laggiù, i valori di cui andiamo fieri come la dignità dell’individuo, i diritti civili (lo sciopero) e le garanzie  sociali (la protezione della salute), la libertà di pensiero e di associazione, il diritto a una giusta retribuzione e così via?

      I grandi Paesi dovrebbero meditare quanto John Ikenberry, docente di Affari internazionali a Princeton, ha scritto nell’articolo appena pubblicato dalla rivista Vita e Pensiero. Mentre è futile pensare di ostacolare la crescita della Cina (o, aggiungiamo noi, della Russia o dell’India), è più che possibile indurla a crescere “nell’osservanza di regole e all’interno di istituzioni che gli Stati Uniti e i loro partner hanno creato nel corso dell’ultimo secolo, regole e istituzioni in grado di proteggere gli interessi di tutti gli Stati anche nel mondo più affollato che ci aspetta in futuro”. Regole che l’economia, la finanza, il lavoro sanno oggi trasmettere meglio di qualunque esercito.

Pubblicato su Avvenire del 18 settembre 2008   http://www.avvenire.it 

 

Fulvio Scaglione

Mi chiamo Fulvio Scaglione, sono nato nel 1957, sono giornalista professionista dal 1983. Dal 2000 al 2016 sono stato vice-direttore del settimanale "Famiglia Cristiana", di cui nel 2010 ho anche varato l'edizione on-line. Sono stato corrispondente da Mosca, ho seguito la transizione della Russia e delle ex repubbliche sovietiche, poi l'Afghanistan, l'Iraq e i temi del Medio Oriente. Ho pubblicato i seguenti libri: "Bye Bye Baghdad" (Fratelli Frilli Editori, 2003) e "La Russia è tornata" (Boroli Editore, 2005), "I cristiani e il Medio Oriente" (Edizioni San Paolo, 2008), "Il patto con il diavolo" (Rizzoli 2017).

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