A PECHINO 203 VANNO PER PARTECIPARE, 1 PER VINCERE. INDOVINATE CHI?

      I Giochi, era ora. Sarà un grande spettacolo ma lo godremo davvero solo accettando il presupposto che in esso, atleti a parte, di olimpico ci sarà poco. Dei 204 Paesi iscritti, 203 sono lì per partecipare. L’altro, la Cina, li ha convocati per vincere, per batterli tutti, per sfoggiare un’organizzazione insuperabile, per mettere il marchio di un evento globale sulla fresca reputazione di potenza economica, militare e politica. Per conquistare con la forza dell’evidenza (e pochi simboli sono più eloquenti di una medaglia d’oro, una bandiera che sale, un inno che risuona) non il diritto a sedere nel salotto buono, già acquisito, ma a occupare una delle poltrone più comode e lussuose.
      Tra rivali assatanati e giurie malleabili, sarà durissima per gli atleti americani. Gli Usa sono da sempre il punto di riferimento della rincorsa cinese (sorpasso previsto, in economia, per il 2035, dice la Fondazione Carnegie) ma nei prossimi giorni la partita si gioca sul medagliere e ne vedremo delle belle. Ma se la Cina ha fortemente voluto i Giochi, il mondo con pari decisione ha chiesto che fosse la Cina a ospitarli: nel 2001, quando si trattò di scegliere la sede di queste Olimpiadi, votarono Pechino 56 nazioni, Italia compresa. Solo 22 scelsero Toronto, 18 Parigi e 9 Istanbul. Fu il mercato a dettar legge, furono quei 250 milioni di consumatori cinesi “evoluti” (cioè già ricchi abbastanza da comprare le nostre merci) a orientare la scelta verso Oriente e a radunare la batteria di sponsor più ricca della storia olimpica.
      L’incontro-scontro di due furbizie alla fine ha prodotto uno stupore un po’ ottuso. Nella marcia di avvicinamento a Pechino molti hanno di colpo scoperto che le grandi città cinesi sono inquinate da uno sviluppo con poche regole, i tibetani sono scontenti, gli uiguri sono oppressi e mettono pure le bombe, c’è la censura e Internet è sorvegliata, la polizia è ovunque, i diritti civili limitati, la politica monopolizzata dal Partito unico. Come se negli ultimi vent’anni nessuno, da noi, avesse letto i giornali o guardato la tv. Franati i propositi e gli spropositi sul boicottaggio, si scopre che Bush ci va, Sarkozy anche, alla chiusura ci sarà Gordon Brown, il nostro ministro Frattini non mancherà. E qualche bello spirito chiede agli atleti di fare la politica che i politici non vogliono fare.
      Anche alla Cina, però, non tornano tutti i conti. E’ poco abituata ad avere gli occhi del mondo addosso, e si vede. L’organizzazione è una macchina da guerra se deve costruire stadi o spianare montagne, ma quando si tratta di spiegarsi il passo è da gambero. Più poliziotti per far vedere che tutto è sotto controllo o meno poliziotti per non sembrare preoccupati? Internet chiusa per non far trapelare contestazioni o Internet aperta perché tanto qui è tutto perfetto? Fabbriche aperte perché c’è il boom o fabbriche chiuse perché per correre bisogna pur respirare? Indecisa come un personaggio di Nanni Moretti (mi si nota di più se non vado alla festa o se ci vado ma sto in un angolo?), la Cina scopre che vittoria non è aver ottenuto le Olimpiadi o dominarle in gara ma digerirle con eleganza.
      Una prova di forza che si tramuta in esercizio di destrezza, ecco una cosa che a Pechino non avevano preventivato e con cui dovranno fare i conti per altri due anni, poiché nel 2010 a Shangai c’è l’Expo che non è un’Olimpiade ma quasi, come il sindaco Letizia Moratti comincia a scoprire. All’ultima sessione dell’Organizzazione mondiale del Commercio la Cina ha detto “no” a tutto perché vuole la poltrona comoda ma in salotto è ancora goffa, s’irrigidisce quando è ora di sciogliersi. Con le Olimpiadi si è tirata il mondo in casa: le servirà per capire che è questo, ormai, lo sfondo su cui deve imparare a muoversi.

Pubblicato sull’Eco di Bergamo dell’8 agosto 2008   http://www.eco.bg.it

Fulvio Scaglione

Mi chiamo Fulvio Scaglione, sono nato nel 1957, sono giornalista professionista dal 1983. Dal 2000 al 2016 sono stato vice-direttore del settimanale "Famiglia Cristiana", di cui nel 2010 ho anche varato l'edizione on-line. Sono stato corrispondente da Mosca, ho seguito la transizione della Russia e delle ex repubbliche sovietiche, poi l'Afghanistan, l'Iraq e i temi del Medio Oriente. Ho pubblicato i seguenti libri: "Bye Bye Baghdad" (Fratelli Frilli Editori, 2003) e "La Russia è tornata" (Boroli Editore, 2005), "I cristiani e il Medio Oriente" (Edizioni San Paolo, 2008), "Il patto con il diavolo" (Rizzoli 2017).

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