C’è molta, troppa differenza tra la fine della guerra e l’inizio della pace. Ecco la lezione più amara del Rapporto Globale 2008 appena pubblicato dalla Coalizione per fermare l’impiego dei Bambini Soldato, nata nel 1998 da un’iniziativa comune di organizzazioni come Amnesty International, Defence for Children International, Human Rights Watch, Terre des Hommes, Save the Children, Jesuit Refugee Service e il Quaker United Nations Office. Non la più evidente, ma la più amara sì.
In primo piano, in questo che è il terzo rapporto triennale (copre il periodo 2004-2008) sulla situazione in 197 Paesi, c’è la disperante lentezza con cui in questo campo si riesce a ottenere qualche progresso. Certo, è calato il numero dei conflitti armati (da 27 nel 2004 a 17 alla fine del 2007) in cui sono costretti a combattere e a morire anche ragazzi con meno di 18 anni. Ma le buone notizie finiscono qui e anche queste sono dovute soprattutto al fatto che alcuni conflitti si sono esauriti più che all’impatto della campagna. Molto relativo anche l’impegno delle nazioni: sono ancora 86 i Paesi in cui i minori sono arruolati negli eserciti di Stato oppure reclutati con la forza da gruppi armati, bande di guerriglieri, organizzazioni terroristiche Myanmar, Yemen, Somalia, Sudan e Uganda i Paesi dove è stato più frequente l’impiego in battaglia di ragazzi inquadrati in reparti regolari; gli stessi con Iran, Filippine, Libia, Colombia e Perù quelli dove i giovanissimi militano in gruppi ufficiali paramilitari o di appoggio alle forze armate. In qualche caso sarebbe stato facile indovinare. Ma avreste detto che nella grande, civilissima India, il Paese all’avanguardia nelle tecnologie e rampante nell’economia, si usano i bambini come spie? Migliaia di morti e feriti, decine di migliaia di ragazzi e ragazze ai quali l’esperienza della violenza, esercitata e subita, rovina ogni giorno la vita per sempre.
Il Protocollo della Convenzione sui diritti del Ragazzo, il documento che in modo più chiaro e netto proibisce certe pratiche, è stato finora sottoscritto da 120 Paesi. Di questi, 80 Paesi, tra cui nell’ultimo triennio anche l’Italia, hanno portato a 18 anni l’età minima per l’arruolamento volontario nell’esercito. Ed è qui, a ben vedere, che dovremmo fare di più. Non possiamo aspettarci apertura mentale o dirittura morale da predoni armati di kalashnikov o terroristi pronti a far saltare in aria un mercato. Ma al Protocollo mancano ancora le firme di Paesi di enorme peso (anche demografico) come Russia e Cina. Altre grandi nazioni, come Australia, Nuova Zelanda, Gran Bretagna (che ha persino mandato alcuni soldati minorenni in Irak) e Usa, non hanno voluto portare a 18 anni l’età minima per l’arruolamento, mostrando così di considerare le esigenze dell’apparato bellico prioritarie rispetto ai diritti dei minori.
Per non parlare dei Paesi dove l’addestramento militare è parte integrante dei normali corsi scolastici: Russia, Cina, Venezuela, Emirati Arabi Uniti, Kirgizistan. Nella Corea del Nord del dittatore Kim Jong Il, gli studenti della scuola secondaria sono costretti a tre mesi l’anno di training bellico: studenti part-time perché soldati part-time. Nei superdemocratici Usa, il 40% degli studenti che frequentano per due anni il Corpo di Addestramento Junior per Ufficiali della Riserva (aperto dai 14 anni), al momento del diploma di liceo sceglie la carriera militare. Cifre che salgono ancora in Russia, dove le scuole per cadetti sono aperte ai ragazzi fin dai 12 anni d’età. Dice la teoria che per avere la pace è saggio preparare la guerra. La pratica invece insegna che preparando la guerra si finisce prima o poi per averne una.
Pubblicato su Avvenire del 21 maggio 2008. http://www.avvenire.it