Dichiarando che il prezzo del petrolio potrebbe (anzi, dovrebbe) crescere ancora per riscattare i Paesi poveri (produttori) dalla servitù verso i Paesi ricchi (consumatori), Mahmud Ahmadinejad, presidente dell’Iran, si è lanciato in una polemica di cui si stenta a intuire il senso e ancor più il fine. Il petrolio vale, per l’Iran, tra l’80 e il 90% dei redditi derivanti dalle esportazioni ed è (come per Russia, Venezuela, Nigeria, Arabia Saudita) la spina dorsale dell’intera struttura economica. Renderlo sempre più caro non equivale, però, a diventare sempre più ricchi: lo shock petrolifero del 1973 colpì duramente i Paesi sviluppati, che in poco tempo riuscirono però a rispondere rimodernando l’apparato industriale e varando politiche sempre più raffinate ed efficaci di risparmio energetico.
Al contrario, i Paesi produttori hanno impiegato molto più tempo nel mettere a profitto il momentaneo vantaggio di allora, e non tutti ce l’hanno fatta. Né sono riusciti a rimontare lo svantaggio di cui già soffrivano nello sviluppo tecnologico (che consente di attutire le crisi del mercato delle materie prime) e nell’influenza politica globale. In altre parole un ulteriore e smodato rincaro del petrolio potrebbe nel medio termine rivolgersi più contro i produttori che contro i consumatori, svalutando di fatto il “capitale” che i Paesi petroliferi (Arabia Saudita, Iraq, Iran, Kuwait, Venezuela e Russia i primi sei al mondo per riserve accertate) detengono nel sottosuolo. Su questa strada Ahmadinejad sarà forse seguito dal Venezuela ma non dai produttori del Golfo né dalla Russia, che difende le proprie posizioni soprattutto tentando i Paesi “clienti” con lucrosi accordi industriali, come dimostrano i progetti varati o realizzati con Germania, Italia, Bulgaria e una serie di altre nazioni.
Seconda considerazione: Ahmadinejad con questa tirata mostra di ragionare nei termini di un autarchismo ottocentesco, come se la globalizzazione non esistesse e ogni Paese potesse ancora far parte a sé. Non è l’unico, certo. Ma farlo in un Paese ricco di risorse e povero nei fatti, sprofondato nel petrolio ma costretto a razionare la benzina, è particolarmente penoso. Il presidente dell’Iran non può non sapere che far crescere il prezzo del petrolio significa far crescere quello dei prodotti agricoli e industriali (di tutto ciò che nasce con il consumo di energia), dei trasporti, delle costruzioni. Di tutto, insomma. E a meno che non pensi di far vivere gli iraniani di soli pistacchi, non si vede come questo possa giovare a un Paese, il suo, che fatica a raggiungere un decente livello di sviluppo e di benessere.
Terzo: il prezzo del petrolio è perfettamente in linea con la corsa al rialzo di tutte le materie prime, dalle più nobili alle più comuni, dall’oro al riso. Il greggio ha superato i 117 dollari a barile mentre l’oro arrivava ai 1.000 dollari l’oncia, in entrambi i casi record storico. Sei mesi fa il petrolio costava 88 dollari a barile, il che significa che l’aumento (da 88 a 117) è stato di oltre il 25%, il 50% su base annua. Solo il mais è rincarato di più: 70% nell’ultimo anno. Che cosa vuole di più, Ahmadinejad? Il sospetto, a questo punto, è un altro. Che le parole del Presidente nascondano una minaccia alla sicurezza energetica dell’Occidente, brandita in parallelo con lo spauracchio del nucleare che tanto preoccupa Usa e Israele. Se così fosse, gli iraniani davvero meriterebbero un Presidente diverso. Se non altro astuto quanto basta a non impegnarsi contro un avversario che non solo è più forte ma che forse aspetta solo una scusa valida per lasciare mano libera ai generali di Bush.
Pubblicato su Avvenire del 19 aprile 2008 http://www.avvenire.it
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