Il viaggio negli Usa di Benedetto XVI ha offerto a molti l’occasione di intonare un peana “senza se e senza ma” agli Stati Uniti. Immancabile la citazione di La democrazia in America (1835-1840) del visconte Alexis de Tocqueville, opera preziosa e di certo ammirevole. Lo sarebbero anche coloro che la citano se solo si ricordassero del fatto che Tocqueville sbarcò a Filadelfia (allora ancora capitale degli Stati Uniti) nel 1831 e visitò solo la parte Nord-Est del Paese, ignorando completamente la realtà allora maggioritaria, quella dello schiavismo e dell’economia delle piantagioni, di cui avrebbe potuto prender atto se solo avesse fatto il viaggio (lungo appena una giornata) da Filadelfia a Baltimora.
Non faremmo una polemica postuma col visconte Alexis se non fosse che anche il giornalismo contemporaneo si è esercitato, durante il viaggio di Benedetto XVI, in un esercizio d’astrazione degno di miglior causa. Si è sottolineata la “simpatia” di Benedetto XVI per l’America e per una cultura politica che non esclude il fattore religioso dal dibattito pubblico ma, anzi, lo esalta e lo considera un elemento indispensabile. Tutto vero, tutto giusto. L’unico problema è che dalla teoria bisogna prima o poi arrivare alla pratica. E che una nazione moderna non è un unicum dato una volta per sempre, immutabile e automaticamente fedele al modello.
George Bush si proclama credente e di sicuro lo è. Ma come si sarà sentito ad averlo accanto un Papa che il giorno dopo, davanti all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, ha scandito che i diritti umani “sono basati sulla legge naturale iscritta nei cuori e presente nelle differenti culture e civiltà” e ha respinto ogni ipotesi di relativizzazione dei diritti e ogni tentativo di negarne l’universalità “in nome di diverse impostazioni culturali, politiche, sociali e religiose”? La domanda non è peregrina: il Bush che accoglieva il Papa era lo stesso che poche ore prima aveva rivendicato con orgoglio di aver autorizzato la tortura dei prigionieri, che per anni ha impedito che fossero rese pubbliche le immagini delle bare dei soldati (i suoi soldati) caduti in Irak, l’uomo che ha mentito al proprio Paese sulle ragioni fondamentali della guerra (le armi di distruzione di massa e la collaborazione con Al Qaeda da parte di Saddam Hussein), il Presidente che alle ragioni della guerra ha sacrificato anche la stabilità economica degli Stati Uniti. Anche questa è America, o no? Siamo i primi a dire che, per fortuna, l’America è quasi sempre altro, e molto meglio. E che spesso ha dato al mondo lezioni non importanti ma decisive. Ma qualcuno è in grado di sostenere che questa di Bush è meno America di quella, per dire, di Clinton, di Carter, di Nixon o di Roosevelt? L’idealizzazione di un organismo vivo, e quindi capace di cambiare nel bene e nel male, quale è una grande e complessa nazione come gli Usa è il segno più sicuro del provincialismo della nostra cultura.