RUSSIA, CHI TOCCA IL PETROLIO…

    L’arresto dei fratelli Saslavskij, Aleksandr e Ilja, russi con cittadinanza americana, finiti in manette il 20 marzo a Mosca con l’accusa di spionaggio industriale a favore di non meglio identificate “compagnie straniere degli idrocarburi”, ha fatto scatenare la solita ridda di ipotesi sulle presunte lotte interne al Cremlino, su chi vince e chi perde ora che Vladimir Putin si appresta a uscire dalla porta della presidenza della Federazione per rientrare dalla finestra della presidenza del Consiglio dei ministri. Il buffo è che si trova ancora qualcuno disposto a credere a queste storie da film di 007. Mentre proprio l’arresto dei Saslavskij (Ilja impiegato nella joint venture anglo-russa Tnk-Bp, Aleksandr consulente free lance nel settore petrolifero) conferma che la linea del Cremlino, quando si tratta delle risorse energetiche, è una sola e sempre la stessa da quando Putin è comparso sulla scena politica: giù le mani.    Abbiamo parlato del consorzio Tnk-Bp, formato nel 2003 tra il colosso inglese British Petroleum e tre aziende russe. La sua esistenza è di straordinaria importanza, per due ragioni. E’ l’unica compagnia petrolifera russa dove il socio straniero (inglese, in questo caso) ha un reale potere di controllo sulla gestione complessiva. Ed è il pozzo da cui sgorga circa il 25% di tutto il petrolio estratto nel mondo dalla Bp. Il braccio di ferro intorno alla compagnia, di cui l’arresto dei Saslavskij è un evidente segnale, deriva proprio dalla somma e dal conflitto di queste due realtà: il Governo della Russia pensa di aver fatto un errore nel 2003 e di aver concesso troppo al socio inglese; la Bp, a sua volta, non può permettersi di perdere questa rendita di posizione, decisiva per l’andamento dell’intera compagnia.    Mentre le ragioni della Bp sono piuttosto chiare ed elementari, quelle della Russia rischiano di sembrare meno comprensibili. In fondo con la corsa al rialzo del petrolio il Cremlino ha incassato ottimi dividendi: ha in pratica azzerato il debito estero maturato in epoca sovietica, ha enormi riserve in valuta (470 miliardi di dollari, terzo posto nel mondo), ha messo da parte un “fondo di stabilizzazione” (in pratica, i risparmi dello Stato per i momenti di crisi) che si aggira sui 100 miliardi di euro, ha conquistato una relativa stabilità sociale. Perché dunque accanirsi su Tnk-Bp, l’unica mosca bianca nella realtà petrolifera russa?    Le ragioni, assai più che politiche, sono tecniche. La Russia ha riserve petrolifere provate per 60 miliardi di barili, che la mettono al settimo posto nel mondo dopo Arabia Saudita (259,8 miliardi di barili), Iran (163,3), Iraq (115), Kuwait (101,5), Emirati Arabi Uniti (97,8) e Venezuela (80). Le riserve russe, però, sfruttate molto e male soprattutto negli anni sovietici, rischiano di avere vita breve e di arrivare in fretta alla consunzione. Quelle del Venezuela, per fare un esempio, sono a rischio di esaurimento nel giro di 80 anni, quelle degli Emirati Arabi Uniti i 85 anni, quelle del Kuwait in più di 100 anni. Quelle della Russia potrebbero esaurirsi, dicono gli esperti in 60 anni o meno.    A questa considerazione se ne deve aggiungere un’altra. E’ vero che in generale la proprietà dei campi e dei pozzi petroliferi tende a essere nelle mani degli Stati e non in quelle delle compagnie private, che controllano solo l’8% delle riserve mondiali provate. In Russia, però, questo processo è diventato negli ultimi anni particolarmente massiccio: nel 2000 il 63% del petrolio russo era estratto da privati, nel 2006 lo era solo il 24%. Lo Stato russo, inoltre, attraverso la compagnia statale Transneft, controlla l’intera rete degli oleodotti. Ora, proprio grazie alla corsa del petrolio (i cui proventi, con quelli del gas naturale, dei metalli e del legname, formano l’80% delle esportazioni e il 30% degli introiti dello Stato) il Cremlino ha potuto ottenere il sensibile miglioramento del tenore di vita (il reddito pro capite dei russi è cresciuto del 12% negli otto anni di presidenza Putin) e la relativa pace sociale di cui si vanta dentro e fuori la Russia. Impossibile, quindi, che pensi di abdicare anche solo in parte al ferreo controllo che ha stabilito sull’industria del gas e del petrolio. I due gemelli Saslavskij forse non sono spie. Ma da quelle parti, in quel campo, chi tocca i fili (metaforicamente) muore.http://www.eni-iri.comhttp:// www.bp.comhttp://www.eia.doe.com      

Fulvio Scaglione

Mi chiamo Fulvio Scaglione, sono nato nel 1957, sono giornalista professionista dal 1983. Dal 2000 al 2016 sono stato vice-direttore del settimanale "Famiglia Cristiana", di cui nel 2010 ho anche varato l'edizione on-line. Sono stato corrispondente da Mosca, ho seguito la transizione della Russia e delle ex repubbliche sovietiche, poi l'Afghanistan, l'Iraq e i temi del Medio Oriente. Ho pubblicato i seguenti libri: "Bye Bye Baghdad" (Fratelli Frilli Editori, 2003) e "La Russia è tornata" (Boroli Editore, 2005), "I cristiani e il Medio Oriente" (Edizioni San Paolo, 2008), "Il patto con il diavolo" (Rizzoli 2017).

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