Nei primissimi anni Novanta, subito dopo la destituzione del dittatore Siad Barre (1991), feci un paio di viaggi in Somalia e Kenya. Sono vent’anni fa tondi tondi, dunque. Già allora, però, la zona di confine con la Somalia interna al Kenya era punteggiata di campi pieni di profughi somali. La causa della loro fuga era la carestia, scoppiata guarda caso proprio quando la guerra tra clan, esplosa dopo il collasso del Governo centrale, era all’apice.
Oggi siamo all’apocalisse. Nell’area investita dalla carestia, il cosiddetto Corno d’Africa che include vaste porzioni di Somalia, Kenya, Etiopia e Gibuti, 12 milioni di persone sono travolte dalla mancanza di cibo e le stime più recenti parlano di 750 mila probabili vittime. Un quarto della popolazione somala è profuga o rifugiata nei Paesi confinanti. In Kenya, che dovrebbe essere il Paese in prima linea nel soccorso ai somali, il 10% della popolazione non riesce più a provvedere in modo autonomo ai propri bisogni alimentari. Ma se diamo un’occhiata alla storia recente, scopriamo che in Etiopia ci sono state in precedenza due carestie: una nel 1973, lo stesso anno di un colpo di Stato contro l’imperatore Haile Selassie (poi deposto nel 1974), e un’altra nel 1984, quando la guerra tra il colonnello Menghistu e i ribelli tigrini era al massimo della violenza. E se pensiamo alla Somalia dobbiamo chiederci: quanto pesano due anni consecutivi di siccità contro vent’anni consecutivi di guerra civile?
L’occasionale siccità che diventa micidiale carestia è un fenomeno prodotto dall’uomo. Nel caso della Somalia questo è particolarmente evidente. Nel 2009 il movimento Al Shabab(“La gioventù”, perché in origine era l’ala giovanile dell’Unione delle Corti islamiche; viene ritenuta forte di otto-nove mila uomini armati) ha bandito dal Paese le Nazioni Unite e tutte le altre organizzazioni umanitarie. Una decisione politica: per aiutare sul serio la popolazione, esse avrebbero dovuto avere libero accesso ai villaggi, autonomia nella gestione e distribuzione degli aiuti e piena libertà di movimento. Gli Shabab l’hanno considerata una minaccia al loro potere e quindi hanno cacciato tutti. Già prima, però, questi guerriglieri islamici esercitavano una specie di sciacallaggio permanente ai danni delle Ong e della stessa popolazione: ogni organizzazione doveva pagare una “tassa di registrazione” tra i 4 e i 10 mila dollari e una “tassa di progetto” pari al 20% del valore dell’intervento, fosse lo scavo di un pozzo o la costruzione di un ospedale.
Risultato: le zone più investite dalla carestia sono proprio quelle da loro controllate, mentre quasi indenne è il Somaliland, l’ex Somalia britannica, l’area del Nord che fu compresa nell’impero inglese dal 1884 al 1960, che dopo la caduta di Siad Barre divenne indipendente e che adesso manda aiuti alla parte meridionale della Somalia. quella, appunto, devastata da due decenni di guerra.
Un’altra considerazione. Nell’Indice internazionale della corruzione, che analizza 180 Paesi, il Kenya si piazza al 147° posto e la Somalia al 180°, l’ultimo. E’ stato calcolato che un comune cittadino del Kenya paga in media 16 “bustarelle” al mese per poter svolgere la propria attività o ricevere i più comuni servizi. Un altro esempio: in soli due anni (2004-2006), il presidente kenyano Mwai Kibaki spese 15 milioni di dollari in Mercedes per il proprio parco macchine. E anche adesso, le organizzazioni dei diritti civili del Kenya ammoniscono a tenere gli occhi bene aperti perché la carestia, con il business degli aiuti, è un’ottima occasioneper ulteriori arricchimenti illeciti. Nel 2008 è stati istituito il ministero per lo Sviluppo delle Terre Aride che, qualche settimana fa, si è paradossalmente rivolto alla Commissione anti-corruzione per sapere dove siano finiti 4 milioni di dollari destinati alle zone colpite dalla siccità e mai arrivati a destinazione.
Insomma, la fame africana non è come un uragano o un terremoto. In essa c’è assai più la mano dell’uomo che quella della natura. E se la povertà estrema diventa, ogni anno di più, un problema soprattutto africano, la ragione non sta nella siccità ma nel fatto che in Africa ci sono più guerre e più corruzione che in ogni altra parte del globo.