Quattro viaggi in Medio Oriente in quatto mesi e zero segnali di miglioramento. Anthony Blinken, il segretario di Stato Usa che vive con la valigia in mano, non potrà fare a meno di riflettere su questo amaro bilancio, che rischia di replicarsi pari pari anche nell’attuale tornata e mostrare tutta l’impotenza americana. Blinken è stato in Turchia, dove Erdogan, mentre gli ripeteva che «Israele è uno Stato terrorista», ha preteso i caccia F-16, senza i quali non permetterà alla Svezia di entrare nella Nato; in Grecia, dove gli F-16 gli vengono chiesti come precauzione contro la Turchia; in Giordania, dove si è sentito profetizzare «conseguenze catastrofiche» se il massacro di Gaza non avrà fine. Poi andrà in Qatar, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita ed Egitto, Paesi che vogliono la fine del conflitto per ragioni politiche (non possono abbandonare i palestinesi) ed economiche. Ascolterà Abu Mazen e i palestinesi della Cisgiordania, che chiederanno un intervento su Israele.
E poi arriverà il confronto più difficile, quello con il Governo israeliano guidato da Benjamin Netanyahu. Perché il più difficile? Perché gli Stati Uniti, che finora non hanno ottenuto da Netanyahu alcuna concessione rispetto a Gaza, temono di essere trascinati nell’ennesima guerra senza prospettiva e senza speranza. È chiaro, infatti, che Netanyahu agisce come agisce nella convinzione che la Casa Bianca non abbandonerà mai Israele. Nessun presidente americano oserebbe farlo, in particolare Joe Biden, che si avvia a un difficile confronto elettorale con Donald Trump e che non può certo permettersi di perdere (per scelta contraria o semplice astensione) il voto dell’elettorato di origine ebraica, che quattro anni fa scelse lui nella percentuale del 77%, persino più di quanto aveva ottenuto Barack Obama. Netanyahu lo sa e quindi alza di continuo l’asticella, al punto da far temere (vedi raid in Siria, attentati in Iran, scontri con l’Hezbollah libanese, progetti di deportazione della popolazione di Gaza) di essere il primo a desiderare un allargamento del conflitto, sapendo che le portaerei americane si schiererebbero inevitabilmente al suo fianco.
Scongiurare questo pericolo sarà, a ben vedere, la prima e unica missione di Blinken nel suo ennesimo tour mediorientale. Perché si è visto con chiarezza che, a parte Israele, nessun altro Paese dell’area vuole tuffarsi in un conflitto generalizzato, che sarebbe ancor più disastroso di quello già in corso. Gli ayatollah invitano alla calma. Hezbollah dal Libano si limita a scaramucce che, dato l’isolamento interno (nessun’altra componente del mosaico libanese vuole il conflitto) e l’inferiorità di mezzi può vederlo solo perdente. La Siria non si muove e la contraerea russa lascia campo libero ai caccia di Israele. La Turchia chiacchiera molto ma fa nulla. Non parliamo poi delle petr o-monarchie del Golfo Persico, che con Israele cercano l’incontro, certo non lo scontro. Quelli di Hamas, infine, sono rimasti soli e ora possono solo cercare la «bella morte» contro i carri armati e gli aerei israeliani. In questo momento, quindi, è Netanyahu la bomba a tempo per gli Usa. E disinnescarla non sarà facile.