E adesso? Dopo il lancio di circa 300 ordigni contro Israele da parte dell’Iran, che a sua volta replicava al bombardamento della propria ambasciata a Damasco, che potrà accadere ancora? I vertici politici iraniani hanno fatto sapere di ritenersi soddisfatti così, e i generali hanno aggiunto di aver usato solo parte della capacità di combattimento, dicendosi pronti a impiegare il resto se Israele vorrà proseguire nello scontro. Le autorità israeliane, a loro volta, annunciano una replica, in arrivo non subito ma «al momento opportuno».
C’è del vero. Si sa che negli ultimi anni l’Iran ha rinforzato e ammodernato l’arsenale, soprattutto per quanto riguarda droni e missili. Per non parlare della più recente e inquietante corsa all’arricchimento dell’uranio, che preoccupa anche l’Agenzia dell’Onu per l’energia atomica: l’Iran dispone ora di una certa quantità di uranio arricchito al 60%, ormai prossimo alla soglia del 90% che consente l’allestimento di una bomba nucleare. Per quanto temibili, però, le forze armate iraniane non possono sfidare la potenza combinata di quelle di Israele (nel solo settore dei caccia, lo Stato ebraico è superiore di almeno 100 velivoli) e dei suoi alleati Usa, Francia, Regno Unito. Una guerra aperta sarebbe un disastro per Teheran.
Con inclinazioni diverse, un ragionamento analogo vale anche per Israele. La «strategia» del premier Benjamin Netanyahu dopo il massacro ordito da Hamas il 7 ottobre scorso, ha chiuso lo Stato ebraico in un angolo: la decimazione della popolazione di Gaza, che ha prodotto scarsi risultati pratici e un insidioso rimbalzo politico (tutte le rilevazioni tra i palestinesi dicono che se si andasse a votare Hamas ora vincerebbe a mani basse) l’ha isolato rispetto a gran parte del mondo, e non vi è alcun segno che Israele possa sentirsi più sicuro di quanto lo fosse prima dell’ultima operazione militare. In queste condizioni, pur godendo di una netta superiorità militare, Netanyahu può permettersi uno scontro aperto con l’Iran?