Se guardassimo dall’alto di un satellite la situazione in Medio Oriente, avremmo la sensazione di osservare un formicaio impazzito. La spedizione israeliana su Gaza, generata dal massacro di civili compiuto da Hamas il 7 ottobre scorso, si è impantanata nel suo stesso desiderio di vendetta e nella sua pochezza politica e strategica. Benjamin Netanyahu non può tornare indietro, perché farlo saprebbe di sconfitta, ma non può andare avanti come vorrebbe perché ha il mondo contro e perché tutti hanno ormai capito che quello di sradicare Hamas dalla Striscia di Gaza era un pio desiderio, e forse nemmeno quello. Ha contro, anche e soprattutto, una parte crescente della società israeliana che, passato il legittimo momento di furia, sta ricominciando a ragionare. Indicativo il viaggio a Washington di Benny Gantz, ex capo di Stato maggiore dell’esercito israeliano ed ex primo ministro, ricevuto anche alla Casa Bianca: la sensazione è che Gantz sia l’uomo su cui puntano gli Usa per un dopo Netanyahu che Joe Biden per primo vorrebbe il più vicino possibile.
La frenesia impera anche sul lato palestinese di questo triste e crudele formicaio. Hamas ha organizzato una strage che, al di là dell’assurdo assunto che sia possibile distruggere Israele, ha rispettato in pieno la legge generale della storia dei palestinesi che, a ogni scontro armato, guerra, guerriglia o intifada che fosse, hanno sempre visto peggiorare la loro vita e la credibilità politica dei loro vertici. Dopo quasi vent’anni di divisioni e di odio reciproco, Hamas e Al Fatah si sono decisi a parlarsi, con promesse di riconciliazione e concordia sentite già mille volte. Ci sono voluti 30mila morti a Gaza e 500 in Cisgiordania per ottenere questo grande risultato. Una classe politica che riesce a regnare solo sulle rovine. E che rispetto alla questione più impellente, ovvero fermare la strage nella Striscia, riesce solo a usare il ricatto sulla vita degli ostaggi israeliani catturati il 7 ottobre. Mentre tutto intorno, dalla Turchia alla Siria, dall’Arabia Saudita all’Iran stesso (sempre sospettato di aver ispirato se non organizzato la strage di Hamas), tutti fanno capire di non voler mettere le mani nel formicaio impazzito. Persino il Libano, dove regna l’Hezbollah vassallo di Teheran, annuncia una trattativa con Israele per l’inizio del Ramadan, il mese del digiuno islamico che invece, per gli ineffabili di Hamas, dovrebbe essere un mese di lotta per i palestinesi di Israele, chiamati a «invadere» la Spianata delle moschee dove già li attendono i fucili di Tsahal.