di Paolo Romani da Parigi – A undici mesi dall’appuntamento con le urne, la Francia è già in piena campagna elettorale. Nella corsa alla presidenza della Repubblica sembra inevitabile un «remake», o meglio una rivincita, del duello finale tra Emmanuel Macron e Marine Le Pen. Ma non è sicuro che i giochi siano fatti: cresce la schiera di coloro (leader di partiti, imprenditori, intellettuali e addirittura militari) che non si danno per vinti, e la lista degli sfidanti si allunga. Per capire quanto sia alta la posta in gioco occorre fare un passo indietro. «Ho riflettuto, ho consultato, ho riunito molte persone e ho preso questa decisione: creeremo un nuovo movimento politico in Francia, che non sarà né di destra né di sinistra». Con queste parole, pronunciate a Amiens 120 km a Nord di Parigi, nasceva 4 anni fa un movimento che, nelle intenzioni del suo fondatore, doveva cambiare la Francia. E Macron non si era fermato qui: «Questo movimento nasce dal basso, è una dinamica che incarna la volontà di mettersi in cammino (en marche)!».
Nel maggio del 2017, Emmanuel Macron era diventato a 39 anni il più giovane Presidente nella storia della Repubblica francese. E un mese più tardi, nelle elezioni politiche, il suo movimento ribattezzato La République en marche (Lrem) aveva conquistato la maggioranza assoluta dei seggi in Parlamento. La vittoria, il «ragazzo prodigio» l’aveva ottenuta nel duello finale – il ballottaggio del secondo turno nel qual si scontrano i due candidati arrivati in testa nel primo turno – con un margine confortevole, il 66% dei voti espressi contro il 34% alla leader dell’estrema destra Marine Le Pen. Il successo di Macron era stato favorito da quello che si suole chiamare, in Francia, il «fronte repubblicano». Eliminati nel primo turno gli altri candidati dell’arco costituzionale, eliminato il favorito François Fillon (destra repubblicana), travolto dagli scandali finanziari, scomparsi i leader di sinistra (solo l’ultragauchiste Jean-Luc Mélenchon aveva superato la soglia del 10%), si sono ritrovati faccia a faccia, nel ballottaggio, Emmanuel Macron e Marine Le Pen.
A questo punto è scattato il front républicain: quasi tutti gli eliminati nel primo turno, alcuni senza esitazioni, altri con reticenze o addirittura di malavoglia, avevano invitato i loro seguaci a votare non tanto per Macron, ma contro Marine Le Pen. Che aveva comunque ottenuto un risultato migliore di quello di suo padre, Jean-Marie Le Pen, nel ballottaggio del 2002 contro il neogollista Jacques Chirac. Quest’ultimo era stato rieletto con un punteggio quasi «bulgaro», l’82,21% contro il 17,79% al leader dell’estrema destra. In Francia si suole dire che esiste un «soffitto di vetro», un muro invisibile che impedisce all’estrema destra di conquistare il potere. Un altro dato da prendere in considerazione è il livello di gradimento di Emmanuel Macron, che a meno di un anno dall’appuntamento con le urne resta piuttosto alto, fra il 35 e il 40%, e non sembra essere stato pesantemente intaccato né dalla rivolta dei «gilè gialli» né dalla crisi sanitaria. A un anno dalle elezioni, il predecessore socialista di Macron, François Hollande, aveva visto il suo indice di popolarità crollare sotto il 20%. Tanto che, vittima di un vero e proprio fenomeno di rigetto, aveva preferito non ricandidarsi, e lasciare la via libera a Macron.
Adesso, la situazione è cambiata nel senso che Macron comincia a sentire il fiatone di Marine Le Pen. La popolarità della leader dell’estrema destra resta alta, attorno al 35%, e soprattutto i sondaggi la danno vincitrice nel ballottaggio contro la maggior parte dei concorrenti in lizza. Solo Macron sembra in grado di batterla, ma non senza difficoltà, proprio perché il «fronte repubblicano» si sta sgretolando a vista d’occhio. La certezza che i francesi e le francesi rieleggeranno Macron per sbarrare la strada a Marine Le Pen comincia a scricchiolare. Il leader dell’estrema sinistra populista, Jean-Luc Mélenchon (al quale i sondaggi promettono più del 12% dei voti nel primo turno), ha già fatto sapere che, in caso di ballottaggio tra Macron e Marine Le Pen, si rifiuterà di «scegliere tra la peste e il colera». Ma la posizione di Mélenchon è diventata scomoda dopo che il leader dell’ultrasinistra ha dato l’impressione di sposare le teorie del complotto. Partecipando a un dibattito in Tv ha suscitato l’indignazione generale quando ha dichiarato: «Vedrete che una settimana prima delle elezioni presidenziali succederà un fatto gravissimo, un attentato, un omicidio, una strage, per seminare un vento di panico, in modo che qualche candidato possa strumentalizzare l’accaduto, fare leva sulla paura per accaparrarsi voti».
Il resto della gauche è a pezzi, i sondaggi attribuiscono l’8% dei voti alla sindaca socialista di Parigi Anne Hidalgo, ma meno del 5% agli altri esponenti della sinistra, comunisti o sociali sti che siano. In crisi anche i «verdi», il cui leader Yannick Jadot, se dobbiamo credere ai sondaggi, non dovrebbe superare la soglia del 7-8%. La situazione non è rosea neppure nella destra repubblicana lacerata dalle divisioni e dalle rivalità intestine, con gli aspiranti candidati che sgomitano. Per ora emergono Xavier Bertrand, presidente della regione del Nord della Francia, e Michel Barnier, il commissario europeo che ha negoziato il Brexit con Londra, ma che esita ancora a dichiarare la propria candidatura. Tra gli outsider ci sono Valerie Pecresse, presidente della regione Ile de France (la regione parigina) ed Edouard Philippe, l’ex primo ministro di Macron (fino all’anno scorso), sindaco di Le Havre e molto popolare. Edouard Philippe ha però fatto sapere che non intende candidarsi, almeno non nel 2022, salvo nel caso (assai poco probabile) che Macron gettasse la spugna.
Uno dei tanti problemi della Francia è che negli ultimi anni si è assistito a una droitisation, uno slittamento a destra sempre più marcato dell’opinione pubblica. Allo stesso tempo ci sono dei movimenti contrastanti: mentre Marine Le Pen si sforza di apparire più «presentabile» per pescare voti nell’area della destra moderata – ha rinunciato alle diatribe antieuropee, non chiede più di buttare via l’euro per tornare al franco, è un po’ meno aggressiva nei confronti degli immigrati e dei musulmani – diversi leader della destra repubblicana si spostano su posizioni più estreme.
Si è parlato recentemente del «tintinnar di sciabole», del manifesto firmato da un gruppo di generali in pensione che auspicano l’intervento dell’esercito per scongiurare la minaccia della guerra civile che rischia di scoppiare nelle banlieues. Sta poi acquistando un peso crescente Eric Zemmour, giornalista, editorialista, scrittore, commentatore televisivo sul canale «C news» decisamente ancorato a destra (si calcola che la sua audience si avvicini al milione di telespettatori) che per molti versi si considera «più a destra di Marine Le Pen». Zemmour non nasconde le proprie ambizioni, sarà difficile che resista alla tentazione di entrare nella corsa alla presidenza.
Si ha l’impressione che poco o nulla, ormai, distingua gli elettori della destra repubblicana da quelli di Marine Le Pen: sui temi della sicurezza, della lotta all’integralismo islamico, dell’immigrazione, la pensano allo stesso modo. Si profila così un consistente blocco anti-Macron. La posizione del Presidente uscente è tanto più scomoda in quanto, come si è detto, non potrà più contare ciecamente, come in passato, sul «fronte repubblicano». «Le fascisme ne passera pas», era il vecchio slogan della sinistra francese. È molto meno sicuro, adesso, che il «muro invisibile» e il «soffitto di vetro» resistano.
di Paolo Romani