Cinquantotto milioni di elettori per 290 seggi. I riformisti penalizzati dall’azione dei Guardiani del Consiglio, che hanno passato al pettine fitto i 14 mila aspiranti candidati eliminandone più di metà, compresi 75 deputati uscenti. Tutto quindi si giocherà sulla partecipazione al voto, che la guida suprema Alì Khamenei ha definito “un dovere religioso”. Bassa affluenza uguale critica al regime, alta affluenza uguale approvazione. Si è fatto sentire il Governo americano, che ha messo sotto sanzione i cinque membri del Consiglio. Il tutto in un periodo di tensioni: interne a causa della crisi economica, internazionali dopo l’uccisione del generale Suleimani da parte dei droni Usa e l’abbattimento del Boeing ucraino da parte della contraerea iraniana. Questi i termini essenziali delle elezioni politiche in Iran.
Ma è davvero tutto qui? Ovviamente no. Intanto, i principali leader del fronte riformista, a cominciare dal presidente Rouhani, invitano gli iraniani ad andare a votare. E’ dunque assai probabile che l’affluenza sarà comunque significativa. Magari non pari al 62% registrato alle elezioni parlamentari del 2016 ma almeno tra il 40 e il 50%, che è lo spartiacque, appunto, tra un’elezione credibile e una sfiducia per astensione. Perché i riformisti prendono questa posizione, pur sapendo di partire svantaggiati? Perché non vogliono sparire dallo spettro politico, per prima cosa. Ma soprattutto perché sanno che il clima del 2016 è scomparso per sempre.
In quel momento si era freschi dell’accordo sul nucleare siglato con Usa, Russia e Onu e il Paese ribolliva di speranza e di fiducia. Oggi è tutto diverso. L’accordo è stato disdetto dagli Usa nel 2018. L’offensiva di Donald Trump è in pieno svolgimento. Dal punto di vista militare, perché sono in continua crescita i contingenti di truppe americane nei Paesi confinanti. E dal punto di vista economico: per fare un solo esempio, in un Paese petrolifero come l’Iran il prezzo dei carburanti è raddoppiato in pochi mesi. La disponibilità al dialogo con l’Occidente, in queste elezioni in Iran, è quindi ai minimi termini. Tanto più che anche l’Europa, dopo tante parole in difesa dell’accordo del 2015, si è accodata alla politica americana.
Gli iraniani fremono e in novembre ci sono state massicce dimostrazioni di piazza, represse senza andare per il sottile. Ed è qui, forse, il nodo cruciale di questa elezione e, soprattutto, dell’equilibrio precario che sostiene l’Iran e l’intero Medio Oriente. Nel 2016 le elezioni in Iran si aprivano a 54 milioni di cittadini con diritto di voto, ovvero 4 milioni meno di oggi. Il che vuol dire che l’Iran è un Paese giovane (circa il 38% della popolazione ha meno di 25 anni) che produce a gran ritmo altri giovani. In più, ha un’alta percentuale di scolarizzazione (è di 15 anni l’aspettativa di vita scolastica, sia per i ragazzi sia per le ragazze) e, nello stesso tempo, un’alta disoccupazione giovanile (intorno al 30%).
Il punto vero della questione, quindi, non è chi vincerà, se i riformisti o i conservatori (che in questi anni si sono avvicendati al potere, riuscendo a bloccarsi a vicenda), ma chi riuscirà a dare una prospettiva a questo mare di giovani. La sfida è questa, per chiunque arrivi a comandare. Tenendo anche conto del fatto che, già oggi, quasi il 76% della popolazione iraniana è concentrata in grossi centri urbani, a partire dalla capitale Teheran che si avvia ai 10 milioni di abitanti. Le grandi città, con la loro piccola e media borghesia, sono per definizione fucine di ricerca economica, culturale e politica e fucine del dissenso. Le sanzioni, e le difficoltà economiche che da esse derivano, incentivano il processo. Il futuro dell’Iran, quindi, non passa per gli anziani ayatollah o gli smagati navigatori alla Rouhani ma per i suoi giovani istruiti e urbanizzati. Loro crescono, mentre il tempo per sfruttare al meglio la loro energia diminuisce.